Genere, inclusione, abitudini

È giusto introdurre nell’italiano il simbolo fonetico dello scevà o schwa (Ə) – derivante dall’omonima lettera ebraica – per indicare un insieme di persone di entrambi i sessi oppure una persona generica che potrebbe essere un uomo o una donna (scrivendo, per esempio, “carƏ tuttƏ”)? Oppure è preferibile mantenere il cosiddetto maschile non marcato (“cari tutti”)? Una questione grammaticale apparentemente molto tecnica che accende gli animi e scatena discussioni su inclusione e identità. Come è accaduto, per esempio, ieri sera alla libreria Bardotto di Torino durante la presentazione del libro di Andrea De Benedetti Così non schwa. Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo (Einaudi). A differenza di quanto accade sui social, dove l’autore è stato attaccato pesantemente, la discussione è stata civile, e proprio per questo interessante. Come si può dedurre dal titolo Andrea De Benedetti ritiene che i costi di una soluzione linguistica imposta dall’alto e a partire dalla lingua scritta superino i benefici e si pronuncia quindi a favore del maschile non marcato sottolineando comunque, con opportuni esempi, come i significati siano più importanti dei significanti. Al contempo, però, non nega che sia stata utile e condivisibile l’introduzione nella nostra lingua di termini come “avvocata”, “ministra” o “deputata” che fino a poco tempo fa non esistevano perché si dava per scontato che si trattasse di ruoli maschili.
Ovviamente il problema non riguarda solo l’italiano: ci sono lingue, come l’inglese, in cui è assai meno evidente, mentre in altre, come l’ebraico (una lingua in cui “ti amo” si dice in quattro modi diversi a seconda di chi lo dice a chi) la questione potrebbe essere ancora più complessa. Anche in questo caso, comunque, bisogna distinguere i significati dai significanti: per esempio tra “bar mitzvà” e “bat mitzvà” c’è sempre la differenza di una sola lettera che si parli di ebrei haredim, modern orthodox, reform, conservative, ecc.; tuttavia la cerimonia dei maschi e quella delle femmine possono differire moltissimo (al punto che la cerimonia femminile può non esserci affatto), molto, poco o per nulla. Dunque, così come (secondo l’opinione di Andrea De Benedetti, che personalmente condivido) non è il caso di stravolgere la grammatica italiana nella ricerca di un linguaggio inclusivo, mi pare che si potrebbe dire lo stesso per l’ebraico. Tuttavia, ritengo che anche in ebraico – come in italiano – non sarebbe sbagliato introdurre lievi modifiche. Per esempio, si usa dire “hazak” (sii forte) a un uomo che ha ufficiato, ha letto la Torah, è andato a sefer, ma anche a chi ha pronunciato una derashà (un discorso, una spiegazione del testo biblico). Ma perché coniugare al maschile se a fare il discorso è stata una donna? Sarebbe un po’ come dire “sindaco” o “ministro”: si usava il maschile finché si dava per scontato che si trattasse di un uomo, ma dal momento in cui hanno cessato di essere ruoli quasi esclusivamente maschili non c’è motivo di non seguire la grammatica. A Torino a Shavuot alla fine di alcune derashot pronunciate da donne abbiamo deciso (un po’ per scherzo ma non troppo) di sostituire “hazak” con “hizkì”. Non so se sia stata un’idea originale, né se l’abitudine si consoliderà, ma intanto è stata gradevole.

Anna Segre