“Vi racconto la mia Piazza,
anima autentica di Roma”
Non ci sono riprese spettacolari dall’alto. Nessun drone, né effetti speciali. “Piazza”, l’ultimo lavoro della regista Karen Di Porto, inizia dove il titolo promette di portarci senza giri di parole: in “Piazza”, per l’appunto, che nel gergo ebraico romano è, da svariate generazioni ormai, il quartiere degli affetti e degli incontri. Il Tempio Maggiore sorto a inizio Novecento, la scuola ebraica, i numerosi locali casher ne caratterizzano la topografia unica nel suo genere. Un luogo tra i più vivaci della Capitale e che dalle macerie del passato, dagli oltre tre secoli in cui la Chiesa qui costrinse gli ebrei dentro i confini di un ghetto volto a separarli dalla società cristiana, fino alla persecuzione nazifascista che ebbe il suo apice nella drammatica alba del 16 ottobre 1943, ha sempre saputo risorgere.
È il primo documentario nella carriera della giovane regista, vincitrice in passato del Globo d’oro alla miglior opera prima con il suo film indipendente “Maria per Roma” (di cui è stata anche interprete e attrice). Un nuovo viaggio che inizierà lunedì 4 luglio alle 21.30 all’Arena Nuovo Sacher, la casa di Nanni Moretti, che fortemente ha creduto in questo progetto al punto da diventarne il co-produttore. “Sento una responsabilità forte, più intensa che in altre occasioni”, spiega Di Porto a Pagine Ebraiche. “Piazza è infatti il quartiere in cui sono cresciuta fin da piccola e di cui ho imparato ad apprezzare i personaggi, le storie, l’umanità tutta speciale che contraddistingue quest’area. Non sono partita con un fine prestabilito, niente cose del tipo ‘Io voglio dire, io voglio dimostrare…’. Ho lasciato che fossero le persone a portarmi dove volevano con i loro ricordi e con i loro pensieri genuini. La responsabilità che avverto deriva proprio dal fatto di esporre delle figure a me care, che conosco e con le quali sono in relazione da sempre, in un contesto pubblico”. L’idea di fondo che l’ha spinta verso questo tipo di narrazione “è che degli ebrei romani si sa in genere troppo poco e che quel che si sa è troppo spesso appiattito sulla Shoah; c’è molto altro in realtà da raccontare e far conoscere”. Le persone, le loro storie, le mitiche panchine dove ogni giorno ci si incontra e sosta per ore e ore. Riti e consuetudini che non appartengono ai soli ebrei romani. Basti pensare al forno Boccione, luogo del cuore immediatamente richiamato nel documentario e meta abituale di registi da Oscar come Spielberg e Sorrentino (“In Rome’s Ghetto, a Bakery Stays Sweet”, titolava alcuni anni fa il New York Times tessendone le lodi).
“Piazza” come esplorazione e mosaico articolato di voci nel segno “di un lavoro che ho cercato di svolgere nel modo più artigianale possibile e con i miei tempi: il montaggio è stato talmente lungo che Nanni, una volta, scherzando ha suggerito che invece di Piazza lo chiamassimo Ben Hur”. Il supporto di un protagonista del cinema di qualità come Moretti si è rivelato fondamentale. “Mi è stato vicino in ogni fase della produzione, rivedendolo varie volte al mio fianco e proponendomi annotazioni sempre stimolanti e originali. Mi ha dato due cose essenziali per lavorare al meglio: sostegno e libertà d’azione”. Piazza, aggiunge Di Porto, è dove (oltre a lei) sono nati i suoi trisavoli, i suoi bisnonni, i suoi nonni e suo padre Roberto “Pucci” (1950-2017). Una colonna dell’ebraismo romano, infaticabile nella sua opera di volontario del servizio di sicurezza interna. La locandina del documentario lo ritrae di spalle, con lo sguardo sull’infinito.
(Nelle immagini, una scena tratta da “Piazza”, la locandina del film e Karen Di Porto)
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