Le ampie falcate
Il punto di attacco di ogni fondamentalismo, qualunque siano la forma e i contenuti con i quali si presenta, ed ovunque esso si verifichi, è il rispondere al senso di spaesamento vissuto dai tanti, dinanzi ai mutamenti collettivi, con un richiamo al bisogno di una nuova moralità pubblica. Dietro il richiamo a «valori» e «principi», a «tradizioni» da recuperare e a vecchi «ordini» da ripristinare c’è una vera e propria battaglia per il dominio del senso comune. Al quale si offre, come risposta allo spiazzamento corrente, l’ancora di salvezza di una qualche dottrina – molto spesso volutamente confusa e, proprio come tale, manipolabile all’occorrenza – applicata la quale la confusione collettiva dovrebbe risultare finalmente ridimensionata se non addirittura neutralizzata. Il panico morale, ossia la condizione per la quale ci si sente sradicati, non identificandosi né riconoscendosi con le cose, le persone, le relazioni che si fanno prevalenti, diventa così lo strumento, utilizzato dagli imprenditori politici della paura, per ottenere il risultato di una società maggiormente docile alle prescrizioni e alle esortazioni per un ritorno ad un qualche calco originario, una sorta di solco primigenio dentro il quale collocarsi in posizione auto-difensiva. In questo disegno, il rigetto della diversità e del pluralismo stanno sono parti dell’ossessione per un’etica pubblica fondata sull’uniformità (di «valori» ma anche di pensieri e opinioni: tutti identici piuttosto che eguali; tutti subalterni, nei fatti) che sarebbe stata tradita. Generando quindi la crisi di senso e significati che si sta vivendo. Il moralismo – che è cosa diversa dal bisogno insopprimibile di avere degli indici morali di riferimento – è il condimento di questo approccio uniformante, dentro il cui involucro si possono agevolmente celare e occultare rapporti di potere così come il declino del concetto stesso di giustizia sociale. Sostituito dal combinato disposto tra rancore e rivalsa, riformulati in chiave etnica. Si inseriscono in questo indirizzo di fondo le grandi battaglie che si stanno verificando negli Stati Uniti sulla questione dell’aborto, di fatto la porta di accesso per una generale revisione delle libertà civili maturate fino ai tempi più recenti. E con essi della legislazione sociale, da diversi critici presentata come “socialisticheggiante” o “collettivista”. C’è come una sorta di dialettica capovolta tra quei movimenti per i diritti civili (di identità e di libertà) che si sono manifestati in questi ultimi vent’anni negli Usa e la rivendicazione, sempre più manifesta, di un neoconservatorismo sociale e politico che guarda con sospetto alle stesse procedure liberaldemocratiche, interpretandole come un’indebita intromissione nell’autonomia, altrimenti assoluta, dei gruppi autoctoni. Che fondano la loro legittimità sul rapporto con il territorio, inteso come ambito spaziale circoscritto da confini invalicabili. Il binomio tra diritto alla proprietà privata, intesa come un assoluto che si impone su qualsiasi altra relazione sociale, e rivendicazione al porto (ed eventualmente all’uso) di armi a titolo personale, in funzione di protezione dei propri beni, trova nell’ossessione per lo spazio locale, in quanto vero ed esclusivo orizzonte dell’individuo contemporaneo, il suo punto di sostanziale convergenza. Nel fuoco di queste battaglie si collocano due nodi: la libertà del corpo sessuato, intesa come emancipazione e dignità di se stessi, a prescindere dalla quantità di oggetti posseduti e dalle appartenenze precostituite, e il rapporto con la storia collettiva, ossia il maggiore o minore grado di riconoscimento in essa. Si tratta dell’intreccio tra la dimensione privata (il sé e la sua immagine sociale) e quella pubblica (il modo in cui ci si racconta come parte di una collettività generalizzata). Non può quindi sorprendere che all’offensiva culturale e politica che una parte dei movimenti civili ha portato avanti, soprattutto nei campus e nei grandi agglomerati urbani (ciò che si è estrinsecato nei fenomeni variamente qualificati anche come «politically correct» e «cancel culture»), corrisponda una spinta di segno esattamente opposto, che invece intende contrapporvi l’esistenza di uno spirito originario, nativo, basato sulla valorizzazione e l’esaltazione – in chiave esclusivista – di un nucleo invariabile, evidentemente preservato dai “fondatori” (reali o immaginari) degli Stati federati, gli unici che, attraverso i loro discendenti, avrebbero diritto ad avanzare rivendicazioni di riconoscimento (e di potere). Per sé, per il proprio gruppo di appartenenza e identificazione, di contro al subbuglio invece generato dalla moltitudine degli «altri», intesi come estranei, abusivi, intromessi e – quindi – potenziali contaminatori dell’ordine costituito. In questo come in altri casi del tutto simili, la pretesa di esclusività è basata sul controllo fisico del territorio, da quello della propria proprietà privata per arrivare allo spazio della contea, della provincia, dei luoghi abitati insieme ai propri omologhi. L’una cosa, il movimento per le identità civili, non è la risposta (piccata) all’altra, il nativismo, ma entrambe corrono su binari paralleli, quelli della riformulazione della nozione di «identità» in un’epoca di società fortemente instabili, dove i corpi intermedi, la rappresentanza comune e l’intermediazione faticano a raccogliere e mediare le spinte centrifughe tra i diversi bisogni collettivi. L’originalismo che ha ispirato il recente pronunciamento della Corte suprema americana sulla non tutelabilità dell’aborto in quanto diritto costituzionale, si inscrive in queste dinamiche. È infatti quella dottrina giuridica, presente nel costituzionalismo nordamericano, la quale afferma che esisterebbe un significato originale, e come tale invariabile (e invalicabile), da attribuire alla lettera della Costituzione. L’interprete (soprattutto il giudice, ma non solo) dovrebbe quindi attenersi, all’atto dell’applicazione del dettato costituzionalistico, alla fedeltà al testo. Che è immutabile, ossia non può essere sottoposto ad interpretazioni. Si parla di «original meaning» (il significato originario) e di «original intent» (intendimenti primigeni), ossia di due assi fondamentali del testualismo, la rigida posizione che afferma l’inaccettabilità dell’evoluzione storica dei significati da attribuire al testo della Costituzione. Un aspetto, quest’ultimo, che infatti i sostenitori di tale dottrina rigettano totalmente. La lettera è una ed unica e la sua applicazione non può presupporre deroghe così come, soprattutto, esegesi. Come è stato tuttavia rilevato, «pur volendo ammettere di poter individuare un univoco e condiviso significato oggettivo di alcuni sintagmi presenti nella Costituzione, spesso è alquanto difficile ricavare l’esistenza di principi, teorie o nozioni che siano chiare. In sintesi l’originalismo necessita ogniqualvolta ve ne si fa ricorso di ideare, e quindi paradossalmente di creare, una dottrina del tutto coerente (così Gustavo Zagrebelsky). Il carattere di questi costrutti ideologici – originalismo, nativismo e, con essi, i fantasmi del suprematismo e di un fondamentalismo che può essere religioso come civile e sociale – è quello di predicare la destoricizzazione degli individui così come delle loro relazioni interpersonali. Pensieri e persone sarebbero immodificabili. Come tali, destinati a non comunicare tra di loro. Il rischio che – dinanzi ad una globalizzazione senza volto, destinata ad incentivare anche il saccheggio dei territori e la defezioni delle élite, a fronte del rabbioso senso di impotenza dei tanti – la risposta possa riposare in queste tentazioni tanto semplificatorie quanto separazioniste, non è poi così lontano dal nostro orizzonte. Al netto di una sentenza costituzionale. Sostituendo alle falcate verso il futuro quelle rivolte al passato.
Claudio Vercelli
(3 luglio 2022)