Periscopio
Papi all’Inferno

Abbiamo trattato, la settimana scorsa, della questione della concezione dantesca del rapporto tra Chiesa e Stato, chiedendoci in che modo essa abbia rappresentato, nel Medio Evo, una visione (quantunque debitrice verso le teorie di Tommaso d’Aquino e Duns Scoto) decisamente innovativa, imperniata su un’intransigente difesa del valore che oggi chiameremmo laicità. Concetto, abbiamo detto, la cui definizione appare soggettiva e mutevole, e alla cui costruzione lo stesso poeta ha certamente dato un contributo essenziale sul piano teorico.
Sul piano pratico, però, abbiamo detto, la visione di Dante è stata completamente rifiutata dalla Chiesa, e ciò ha rappresentato quello che abbiamo definito una grande occasione mancata. La Chiesa non dovrebbe ‘subire’ il valore della laicità, ma dovrebbe difenderlo e reclamarlo, come prerequisito imprescindibile per il libero esercizio delle proprie funzioni dottrinali e pastorali. Ma così non è mai stato.
L’occasione mancata, abbiamo detto, si articola su due piani diversi.
Il primo, di cui abbiamo parlato la settimana scorsa, è stata l’intransigente difesa del potere temporale della Chiesa, che ha evidentemente recato un enorme svantaggio alla credibilità della stessa sul piano spirituale. Per secoli lo Stato pontificio si è comportato esattamente come tutti gli altri, facendo guerre di ogni tipo, allacciando e disfacendo alleanze politiche e militari, partecipando a tutti gli intrighi internazionali, applicando solertemente, nei propri confini, il rogo e la ghigliottina. Ciò è finito solo nel 1870, e non certo per scelta della Chiesa, che ha reagito all’onta di Porta Pia con cinquantanove anni di dispettoso e rancoroso isolamento, che ha privato l’Italia delle energie di milioni di cattolici, invitati a non partecipare al progresso di quel Paese che aveva osato sottrarre al papa il suo regno terreno. E quando, nel 1929, ci fu finalmente la riappacificazione, il Vaticano non mostrò nessun imbarazzo di fronte al fatto che, agli occhi del mondo, il massimo beneficiario di quel patto (che, come disse papa Pio XI, avrebbe “restituito Dio all’Italia e l’Italia a Dio”) era un certo signore.
Dante avrebbe certamente apprezzato (come si dice, “senza se e senza ma”) la breccia di Porta Pia, che avrebbe chiuso la ferita aperta da quella donazione “matre” di tanto male (Inf. XIX. 115). Avrebbe plaudito anche alla successiva pace del ’29? Non credo proprio, a lui piacevano le persone serie, non certi eroi tragicomici.
La seconda occasione mancata è non meno importante, e consiste nel rifiuto nella distinzione dantesca tra rispetto per la “santità” della Chiesa e la libera critica verso gli uomini che, di tempo in tempo, la rappresentano. Su questa piano il pensiero di Dante è chiarissimo: la Chiesa è “voluta da Dio” per la redenzione spirituale dell’intero genere umano, ed è un’istituzione santa ed eterna, al pari dell’impero, che è invece preposto alla realizzazione terrena della giustizia. Nessuna delle due istituzioni è superiore o inferiore all’altra, e nessuna delle due accetta limitazioni di sorta nell’esercizio delle proprie funzioni. Ma entrambe sono rette da uomini, e gli uomini possono sempre sbagliare. E quando ciò accade, è non solo diritto, ma preciso dovere del buon cittadino e del buon fedele denunciare tali errori. L’Inferno pullula di papi e imperatori, e ciò è per Dante una cosa del tutto naturale. La Chiesa e l’Impero non vengono assolutamente offuscati, nella loro grandezza, dalla presenza di queste mele marce, anzi, è l’esatto contrario. Credo che la mirabile scena, già ricordata, del XIX Canto dell’Inferno, in cui il papa simoniaco Niccolò III crede che sia già arrivato a prendere il suo posto il suo successore, Bonifacio VIII (in quel momento, ancora vivo) rappresenti un grande atto di amore e devozione, da parte del poeta, nei confronti di quella Chiesa a cui egli restò sempre fedele e devoto, pur soffrendo grandemente per i reiterati tradimenti a essa riservata da coloro che avrebbero dovuto essere i suoi protettori e pastori. Questa libertà di critica e di giudizio, a mio parere, avrebbe fatto e farebbe molto bene alla Chiesa, che avrebbe tutto da guadagnarne sul piano della sua autorità e credibilità.
Al riguardo, vanno fatte alcune precisazioni.
La prima è che, in teoria, nessun dogma stabilisce che la Chiesa, nei suoi comportamenti storici, abbia sempre ragione. I primi trentacinque papi (da Pietro a Giulio I, morto nel 352) furono tutti fatti santi, ma a un certo punto la catena di ininterrotta santità si spezza, e Liberio (352-366) fu il primo pontefice a non assurgere all’onore degli altari, seguito poi da molti altri. Santità, poi, non coincide con perfezione. Il dogma della cd. infallibilità pontificia, com’è noto, fu introdotto solo nel 1870, proprio in reazione al presunto laicismo risorgimentale, ma neanche esso stabilì che i papi abbiano sempre ragione, su qualsiasi argomento, ma soltanto che non si possa dubitare delle verità di fede da loro pronunciate “ex Cathedra”. Anche secondo la dottrina della Chiesa, quindi, il papa può sbagliare.
È un dato di fatto, però, che tale elementare principio (che è innanzitutto di buon senso) è stato quasi sempre contraddetto dal pensiero clericale, che ha costantemente opposto resistenza a qualsiasi critica rivolta ai comportamenti della Chiesa, del presente e del passato, anche quando esplicitamente contraddetti e smentiti da decisioni successive, decisamente opposte a quelle prese in precedenza. Non è il caso di fare esempi, ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta. Solo per restare sul terreno dantesco, è emblematico notare che tutti i commenti alla Commedia redatti da studiosi di orientamento marcatamente cattolico, almeno fino alla metà del secolo scorso, hanno sempre rimproverato Dante per i suoi attacchi a Bonifacio VIII. Non si manda all’Inferno un papa.
Qualcuno potrebbe obiettare che, in questo caso, non è un problema di laicità, trattandosi di problematiche interne alla Chiesa stessa, o al pensiero cattolico. Ma io ritengo, invece, che una pietra miliare della laicità sia da ricercare proprio nel secondo Comandamento del Decalogo ebraico (primo nella numerazione cristiana, risalente ad Agostino), che vieta di avere altri dèi all’infuori di Dio. Ciò significa, tra l’altro, che solo Dio ha natura divina, e, se anche esistono istituzioni preposte a venerarlo e a promuovere la diffusione della sua parola, gli uomini preposti al loro funzionamento restano semplici uomini, per natura imperfetti e fallibili. Può sembrare paradossale collegare il principio di laicità a un comandamento religioso, ma va ricordato che tale precetto non obbliga a credere in Dio, così come tale obbligo non viene sancito in nessuno dei sette precetti cd. noachidi, valevoli per la totalità del genere umano.
L’ebraismo, su questo piano, offre un insegnamento mirabile: molti padri di Israele (a partire da Mosè, Giacobbe, i suoi figli, Davide e altri) hanno commesso gravi errori, che non vanno taciuti o occultati.
E Dante, da questo punto di vista, pare più vicino alla visione ebraica che a quella cristiana. E avrebbe buoni motivi, forse, per sentirsi ancora più lontano dalla Chiesa di oggi, rispetto a quella del suo tempo, per le ragioni che cercherò di esporre mercoledì prossimo.

Francesco Lucrezi

(6 luglio 2022)