Ticketless – Macà e Jeudì

Le cronache ci aggiornano dalla Sardegna: invasione di cavallette. “Il Foglio” di domenica rivela il ritorno delle piaghe bibliche nel mondo: siccità, carestia, epidemie, guerre, locuste. La canicola non aiuta a sollevare lo spirito dei giornalisti e dei lettori, le parlate giudeo-italiane forse sì.
Nell’Ottocento italiano, la parola “macà” serviva a indicare piaghe moleste e piaghe poco moleste: un amico noioso, una zia petulante, un libro inutile. In questi ultimi mesi ho frequentato carteggi di Isacco Artom e di Cesare Lombroso, che riservano non poche sorprese per chi pensa a una loro lontananza dalle consuetudini ebraiche. Giro a linguisti più competenti di me l’uso di “jeudì” (con varianti nella trascrizione: yehudì, judì ecc.). Sostantivo e non aggettivo. Qualcosa che assomiglia al francese judeitè, alla hebraitude mitteleuropea-triestina. Google non dà sollievo: ti sospinge verso il jeudi francese. Lombroso, Artom, Salvatore Debenedetti se ne servivano per indicare non la parte, ma il tutto. L’idea stessa di ebraismo, l’insieme delle cose ebraiche, nei suoi risvolti psicologici, delle abitudini famigliari, dall’arte di combinare matrimoni ai tic nevrotici. Per essere chiari: se adesso leggessero il mio commento alle locuste sarde direbbero che è così “jeudì” trovare l’ebraismo anche dove non c’è.

Alberto Cavaglion

(6 luglio 2022)