Machshevet Israel – Nel pardes

Alcune storie bibliche, determinate parole ebraiche e certe aggadot sono ripetutamente citate, perché il loro valore istruttivo sembra svelarsi sempre ex novo nelle diverse circostanze, nel ciclo delle feste, in contesti inediti. Quante volte abbiamo udito o rinarrato la storia dei quattro maestri che entrano nel pardes (cfr. Talmud Bavli, Chaghigà 14b-15a)? Chi non frequenta un bet ha-midrash o non studia giudaismo forse non sa bene di cosa parliamo, ma nel mondo ebraico la parabola è nota; parabola perché di un mashal si tratta, non di un evento storico: hanno insegnato i nostri maestri che quattro di loro entrarono nel pardes, qui traducibile come ‘giardino’: Ben Azzài, entratovi, sbirciò e ne morì; Ben Zomà sbirciò a sua volta e perse il senno, impazzì; Acher, ossia Elishà ben Abuyà “strappò i germogli”, dice il testo, ossia perse la fede e non perseverò nel giudaismo, diventando ‘altro’, acher appunto; infine rabbi ‘Aqivà entrò in pace, integro, e integro ne uscì. Il testo è ricco anche di citazioni bibliche, che qui tralasciamo.
Al nocciolo, resta la domanda: cos’è il pardes di cui tratta questa famosa aggadà? Siamo nel contesto di un commento a un passo mishnico che pone restrizioni alla prassi mistica o, in generale, alla speculazione filosofico-metafisica: non ci si chieda cosa v’è sopra, cosa v’è sotto, cosa v’è prima e cosa v’è dopo; ci si accontenti dei quattro cubiti di halakhà… Inoltre, all’epoca della stesura della Mishnà, l’inclinazione alla chokhmà jevanit, la sapienza greca, non poteva essere apprezzata e tantomeno raccomandata dai maestri. Anche la mistica, coltivata nelle scuole neo-platoniche diffuse su tutte le sponde del Mediterraneo, era allora percepita come una minaccia alla sopravvivenza della vita ebraica. La citata parabola, che tratti di una vera e propria salita in cielo (Rashi) o di una visione in sogno (i Tosafisti) o di altro ancora, veicolerebbe un messaggio chiaro. ‘Giardino mistico’ è dunque il primo significato di pardes, termine forse di origine persiana. In altri contesti, esso viene ripreso dai maestri e inteso come acrostico di quattro diversi metodi di studio della Torà: p (lettera pe) sta per peshàt ossia l’approccio semplice/letterale; r (resh) sta per rèmez, il livello allusivo/allegorico che per alcuni include l’interpretazione filosofica praticata ad Alessandria; d (dalet) sta per deràsh come senso parenetico/midrashico, usato nelle derashot, le omelie; infine s (samekh) sta per sod, il livello segreto/mistico, tema del capitolo talmudico da cui l’aggadà è presa. Questi quattro approcci sono stati oggetto di prassi esegetica e soprattutto di teoria ermeneutica da parte di molti grandi rabbini di età medievale, come Bachyà ben Asher e il qabbalista Abraham Abulafia. Tutto ciò è noto.
Ora, chiediamoci: queste due distinte occorrenze del termine/concetto di pardes hanno qualche relazione tra loro? All’apparenza la storia di Chaghigà è a se stante, esprime qualcosa di diverso rispetto alla teoria della polisemia testuale o della stratificazione semantica epitomizzata nell’acrostico. Il pardes dell’aggadà è certamente a sua volta polisemico, in chiave però di etica comportamentale non di teoria dell’interpretazione. Storicamente, che Ben Azzài sia morto per cause mistiche o che Ben Zomà sia impazzito per troppa contemplazione è del tutto improbabile, anzi irrilevante e persino fuorviante se non ‘entriamo’ a nostra volta nella logica del midrash, se non cogliamo il messaggio del mashal. Tentiamo allora un daver acher, accostando i quattro tannaiti all’ermeneutica elaborata dagli esegeti medievali e facendo corrispondere a ogni tannaita un approccio, un livello ermeneutico. Il primo (come se il testo dicesse: persino un sapiente come Ben Azzài!) simbolicamente ‘muore’, o morirebbe, se o quando si attenga al solo peshàt: una lettura appiattita sul senso letterale uccide chi studia il Testo rivelato, perché gli nega i settanta sensi ovvero la potenziale capacità di molteplici significati. Il letteralista è una variante del fondamentalista, e di fondamentalismo si muore. Sempre sul piano simbolico, persino un Ben Zomà, il secondo saggio, perde o perderebbe il senno se praticasse un approccio esclusivamente allusivo (che Bachyà ben Asher fa coincidere con il derekh ha-midrash in quanto senso puramente allegorico-simbolico); se isolato dagli altri, anche quest’approccio depauperizza la polisemia e, riducendo la ricchezza semantica del Testo, risulta fuorviante e lesivo del senso pieno. Il terzo saggio, e qui Elisha ben Abuyà è un esempio storico, perde la fede perché – avendo abbracciato la cultura greca e il dualismo gnostico – si concentra solo sulla speculazione intellettual-razionale, ciò che Bachya chiama derekh ha-sekhel. Ovvio che rèmez/allusione e deràsh/omelia sono ora invertiti rispetto alle consonanti di pardes, ma proprio tale permutazione rende l’esemplarità talmudica del mashal e il suo valore pedagogico ancor più espliciti. Il quarto e ultimo maestro, infine, non può che essere il maggiore della sua generazione: entra nel pardes e ne esce in pace, incolume, perché tiene insieme tutti e quattro gli approcci riuscendo a coniugare tra loro il senso letterale al significato mistico, la simbologia alla spiegazione razionale, senza che si escludano o che confliggano l’un l’altro. Uno sguardo sintetico, pluralista e inclusivo permette a rabbi ‘Aqivà di assurgere a modello del maestro che rimane sulla retta via, nella mesillat yesharim (cfr. Tehillim/Salmi 86,11).

Massimo Giuliani, Università di Trento

(7 luglio 2022)