Le guerre culturali

La nostra è una età di moralismi contrabbandati per posizionamento critico. Una sorta di epoca del pudore neovittoriano, estremamente intollerante nel momento in cui polemizza contro le altrui ragioni, per patrocinare come assoluto incontrovertibile la propria. Anche per queste ragioni l’azione politica sta invece a zero, posto che essa non si basa sulle petizioni di principio, quelle che danno forma a identità insindacabili, ma sul confronto di interessi e posizioni contrapposte e sulla loro successiva mediazione. Il ribadire ossessivamente che si è qualcosa o qualcuno molto spesso rivela, come una sorta di spia segreta, il fatto che non si sappia cosa ciò debba implicare dal momento in cui si è obbligati a rapportarsi con gli “altri” da sé, così come dal proprio gruppo di riferimento. L’impotenza che deriva dall’incapacità di mettersi in relazione gli uni con gli altri (ascoltare, comunicare, interagire) ha sempre e comunque un unico sbocco, ossia quello di condurre alla guerra, che sia quella dei simboli (la secca contrapposizione culturale) piuttosto che quella armata, destinata a risolversi sui campi di battaglia. Si tratta comunque di un confronto che ha sempre come posta in gioco il controllo del potere, ovvero l’imposizione della propria volontà su quella di terzi. L’incapacità di agire razionalmente, infatti, produce il mostro della contrapposizione corpo a corpo. E a quest’ultimo stato di cose, quand’esso si dovesse manifestare, è non meno illusorio rispondere con il richiamo ai soli principi se, ad essi, non si ricollega la capacità di mediarli politicamente, traducendoli quindi in dati di fatto. L’essenza del potere nelle democrazie – per come secoli di dottrina politica sono andati progressivamente formulandola – è infatti data dalla capacità di mediare nel pluralismo conflittuale di persone e cose. Da ciò deriva il potere temperato, di ordine costituzionale e non di natura assolutistica. È mediazione, per inciso, ciò che non si spinge oltre la soglia dell’altrui (o propria) distruzione. Al netto di tante considerazioni, oggi sono in corso non solo guerre guerreggiate – a partire da quelle più visibili, come l’Ucraina, per arrivare a quelle pressoché invisibili, ad esempio nel caso dello Yemen – ma anche e soprattutto guerre culturali, che hanno come posta in gioco il dominio del discorso pubblico, il controllo delle condotte collettive attraverso l’istituzione di filtri basati su censura e autocensura. L’una e l’altra, storicamente, si presentano sempre non per quello che sono in realtà bensì per esercizi di liberazione di energie e saperi altrimenti repressi o compressi. Si manifestano come rivelazioni salvifiche in virtù delle quali tutto il passato dovrebbe essere riletto da cima a fondo. Si mostrano come esercizio di liberazione quando, molto spesso, anelano il divenire nuove ortodossie. L’essenza della cosiddetta «cancel culture», che si formula come discorso di contropotere proprio perché spasima l’obiettivo di definirsi come potere a sé, sta in queste logiche, in realtà molto spoliticizzate in quanto non coinvolgono un’intera collettività ma solo singole minoranze che operano sul mercato delle identificazioni. Anche per questo la loro enfatica spettacolarizzazione è parte del processo stesso di autopromozione, essendo perlopiù l’esercizio di un simulacro di opposizione, nel mentre cerca invece di indicizzare a beneficio proprio e del gruppo di appartenenza la progressiva entropia della coesione sociale.

Claudio Vercelli