L’intervista all’ambasciatore Serra
“L’europeismo di Simone Veil,
una lezione da recuperare”

“In una Francia che ha un problema identitario perché altrimenti non si porrebbero i pericoli Le Pen e Melenchon con le loro lotte antisistema recuperare l’immagine iconica di Simone Veil significa recuperare tutto quelle che noi vorremmo sia la democrazia, l’Europa, in termini di diritti e di visione. Del resto se uno prende i diciassette obiettivi principali dell’agenda dello sviluppo delle Nazioni Uniti per il 2030 non c’è argomento su cui lei non sia intervenuta. Ma, non dimentichiamolo, ventisette anni fa”.
L’esempio di Simone Veil rimane dunque profondamente attuale, sottolinea a Pagine Ebraiche la persona che ne ha preso il posto tra gli immortali dell’Académie française: l’ambasciatore Maurizio Serra. Diplomatico a Berlino e Mosca prima del crollo del Muro e dell’Unione Sovietica, scrittore con la predilezione per le biografie, da Malaparte a Svevo fino a Mussolini, Serra questa primavera si è seduto al fauteil 13 che fu di Veil e prima ancora Claudel e Racine. Primo italiano in quattrocento anni di storia a entrare in una delle più prestigiose istituzioni culturali d’Europa. Se non la più prestigiosa. Come da rito, ha pronunciato l’elogio di chi lo ha preceduto. “Ho cercato di evitare di fare un discorso retorico. Parlare di Veil è come parlare di Garibaldi. Un’icona di una nazione”. Una nazione che Serra conosce sin dall’infanzia portato a Parigi a un anno dal padre giornalista che nel 1956 vi aprì la sede Ansa e a cui ha scelto di recente di raccontare la figura di Mussolini. Obiettivo dichiarato quello di capovolgere l’idea che il capo del fascismo fosse solo un pagliaccio, un cialtrone meno sanguinario degli altri dittatori contemporanei. “In Francia questa idea è molto radicata. E poi ha finito per passare il confine e allargarsi agli italiani”. Il suo Il caso Mussolini, pubblicato in Italia da Neri Pozza ma arrivato prima nelle librerie francesi, restituisce l’immagine di uomo più complesso di un semplice istrione, e per questo più pericoloso: bugiardo, senza ideologia, amante del potere per il potere. Capirlo serve a comprendere il passato italiano e, sostiene Serra, “è venuto il momento di liberarsi di questa ombra ingombrante”.
L’incontro con il diplomatico è un’occasione per parlare di uomini e donne del passato, di Italia, di Francia, di pagine scritte e da scrivere. Del resto, spiega Serra, “la diplomazia è anche una grand’occasione di letteratura, se uno ne ha la necessità e passione, per la possibilità di imbattersi in situazioni e uomini”.
Le pulsioni antieuropeiste di Marine Le Pen a destra e di Jean-Luc Mélenchon a sinistra avanzano e sono l’esatto contrario di quanto immaginato da Simone Veil. Il progetto europeo è di nuovo in crisi?
La Francia europeista e interclassista di Simon Veil è quella in cui tutti noi speriamo. Una Francia che forse ora potrebbe anche imparare dal voto a essere un po’ meno presenzialista, nel senso degli spazi che vuole acquisire per sé, e un po’ più partecipativa. Certo, con la restitutio dell’Europa alla sua continentalità a causa di Brexit a mio avviso un danno per l’Europa e un danno maggiore per gli inglesi qual è l’unico paese che è cerniera tra il Sud, l’Est e l’Ovest, se non la Francia? Per cui se un giorno avessimo Frexit crollerebbe il progetto europeo, perlomeno quello dei padri fondatori tra cui la Veil. Ma fare previsioni non è il mio campo.

Il mondo ebraico francese alle presidenziali ha chiesto espressamente di non votare Marine Le Pen. Che giudizio dà della sua normalizzazione?
A queste elezioni si è presentata con posizioni più attenuate su temi come l’Europa e l’uscita dall’Euro. Ma è importante vedere e riconoscere quanto questa persona abbia sdoganato un passato così pesante. Il solo fatto che il suo consigliere occulto, direi quasi incestuoso, sia il padre, con cui un giorno litiga il giorno dopo fa la pace, è significativo. Lui è un personaggio veramente oscuro. E secondo me su di lei pesa la scelta consapevole di mantenere il cognome Le Pen, con tutto ciò che questo comporta.

Chi è uscito male da queste elezioni è Zemmour, se lo aspettava?
No. Pensavo che le sue doti di intellettuale e polemista avrebbero attirato l’elettorato francese che in genere si fa affascinare da questi personaggi, che buttano lì tre o quattro citazioni. Secondo me un blocco di chi non l’ha votato alla fine non l’ha fatto per il suo essere ebreo. Quello zoccolo duro dell’antisemitismo francese che, pur condividendo le sue idee, non ha voluto votarlo. Se devo dirla tutta comunque lo trovo più interessante di lei.
Pone, in modo sbagliato ed estremistico, delle riflessioni che non sono banali sul futuro della Francia.

Le Pen, Zemmour, ma se guardiamo al nostro paese anche una parte della destra italiana, hanno più volte usato il passato in modo distorto. In Francia e in Italia si continuano così a costruire false narrazioni su Vichy e sul fascismo. Ma c’è un pericolo che questo passato ritorni?
Mi concentrerei sull’Italia, anche se pure i francesi dimenticano il collaborazionismo e il suo significato. Come scrivo nel mio libro su Mussolini, ritengo il fascismo un fenomeno storicizzato. Non tornerà perché è legato a un determinato contesto e a una determinata figura. Ho ricevuto delle critiche legittime a riguardo. Mi si dice, hai ragione in astratto, ma poi guarda a tutti i neo-, il neofascismo, il neorazzismo. Penso però che per contrastarli dobbiamo usare altri strumenti. La fisioterapia dell’educazione. Dall’altro lato mi preoccupano i revisionismi e negazionismi. Tutta quell’area che va tra il blandamente nostalgico e il decisamente revisionista che dice per esempio la balla colossale che le leggi razziali siano state imposte da Hitler. Ormai c’è una letteratura immensa a riguardo. Queste bugie vanno contrastate con forza. Ma liberiamoci dell’ombra di Mussolini, mandiamolo in soffitta studiandolo, intervenendo con fermezza sui revisionismi e ogni ammiccamento.

Guardando al presente, lei è stato ambasciatore a Mosca quando ancora era Unione Sovietica. Immaginava il ritorno della minaccia russa?
Non credo che la Russia di Putin sia assimilabile a quella sovietica. In lui rivedo più l’imperialismo zarista che quello di Stalin. Certo la sindrome dell’accerchiamento è un tratto comune. In ogni caso non mi aspettavo l’invasione e Putin ne pagherà le conseguenze. Quando i ragazzi tornano in patria piastrine, tornano cadaveri, è difficile che si rimanga silenti. Vedremo. Certo lui ora è prigioniero del suo tragico errore.
Da diplomatico del resto non posso che immaginare di negoziare con lui. La realpolitik ce lo impone. Non possiamo metterlo per sempre all’angolo.

Daniel Reichel, Pagine Ebraiche Luglio 2022