Pagine Ebraiche – Il dossier Italkim
Enzo Sereni e il sogno
di una Terra libera

Nel settantesimo anniversario della Liberazione il Capo dello Stato Sergio Mattarella aveva voluto ricordare l’eroismo tragico di “Enzo Sereni della Brigata Ebraica che, paracadutatosi in Toscana, fu catturato dai nazisti e ucciso a Dachau”. Il Presidente aveva reso omaggio a Sereni per il suo atto di coraggio, compiuto nella convinzione di dover partecipare in prima persona alla lotta per liberare l’Italia dal nazifascismo. Lui che l’aveva lasciata per inseguire il sogno sionista, per costruire in Eretz Israel uno Stato per gli ebrei. Un utopista, socialista, pacifista eppure eroe di guerra, la cui vita è divenuta essa stessa testimonianza e realizzazione delle sue idee e dei suoi insegnamenti. Un ebreo italiano che negli anni Venti scelse di abbandonare la comoda vita borghese romana per costruire con alcuni compagni nell’entroterra israeliano un kibbutz: Givat Brenner. La figura di Enzo Sereni è centrale nella storia degli italkim, perché ne è stato un pioniere. A lui di recente è stato intitolato un osservatorio che vede il coinvolgimento di accademici ed esperti del diritto e che ha come sua prima finalità quella di contrastare il fenomeno dell’antisemitismo. Il suo nome rimane di attualità e la sua storia, interrotta a 39 anni dagli aguzzini nazisti, una lezione per il presente. Lo spiegava il nipote di Sereni, Alon Confino, nella traduzione italiana della biografia Enzo Sereni. L’emissario (Le Château Edizioni). “Come e perché dovremmo ricordare Sereni oggi, così tanti anni dopo la sua morte? – si chiedeva Confino – Sarebbe un errore, per me, ricordarlo solo come un pioniere sionista che fu ucciso a Dachau, perché questo farebbe di lui, che odiava il pensiero messianico, un santo sionista. Dovremmo invece ricordarlo per il modo incredibilmente intenso in cui visse, per le azioni e i pensieri, confrontandosi con questioni che ancora oggi mettono molti di noi in difficoltà: la storia, gli ebrei e gli arabi, il futuro dell’Italia e il sionismo. Sereni avrebbe apprezzato la poetica ironia degli sviluppi del dopoguerra in Israele e in Italia: nel presente non sono il comunismo, l’imperialismo inglese, il fascismo o il nazismo a minacciare la visione umanistica della storia che lui aveva, ma tendenze politiche anti-democratiche nate all’interno delle stesse società”.
Confino lo scrisse ormai dieci anni fa, ma le sue parole appaiono ancora valide oggi. Non sarebbe stata possibile l’adesione al sionismo di Sereni senza l’effetto di due legami: uno interno alla famiglia (l’avvocato Angelo Sereni, fratello del padre di Enzo, era stato nell’anteguerra un pioniere del sionismo italiano); l’altro, esterno alla cerchia familiare, riguarda invece Moshe Beilinson, studente russo che aveva partecipato alle rivoluzioni del 1905 e 1917 e poi al sionismo socialista, le cui tesi fece conoscere in Italia grazie alla sua collaborazione con Umberto Zanotti-Bianco. A Roma Sereni, studente universitario, divenne grazie a Beilinson attivo esponente del movimento giovanile Avodà (in ebraico “Lavoro”). Da qui costruì il suo futuro di pioniere, andando poi a fondare a fine anni ‘20 quello che è diventato il più grande kibbutz d’Israele. Ma collaborò anche con i giovani ebrei in Germania, per mostrare loro la strada verso Eretz Israel, nel periodo cruciale dell’ascesa di Hitler al potere, pose le basi per la grande immigrazione degli ebrei iracheni, lavorò al servizio dell’intelligence inglese fra gli italiani in Egitto e collaborò con i movimenti antifascisti.
“Girò il mondo, mise radici in Israele, amò la gente, i libri e il cibo. Fu giornalista, segretario del kibbutz, bracciante, istruttore dei giovani, agente segreto, emissario della Sochnut e storico. Era saldo nei valori della famiglia e pronto a creare nuovi legami di amicizia ovunque andasse”, sottolinea la sua biografa Ruth Bondy. “Era ebreo e italiano, amava entrambi i popoli e costruì la sua casa in Terra di Israele, pur rimanendo legato al paesaggio italiano. Quale figlio della generazione seguente all’assimilazione, il suo ritorno all’ebraismo – come Theodor Herzl o Yosef Trumpeldor – fu una scelta, un’espressione di volontà e di anelito; andò nella terra degli avi seguendo un richiamo, ma una parte del suo cuore rimase in Italia, dove tornava periodicamente, con la costanza degli uccelli migratori. Certo conosceva bene la Bibbia e i testi ebraici, ma le sue radici culturali affondavano nella letteratura italiana; padroneggiava l’ebraico e ne era geloso, ma l’idioma della sua anima u Il Presidente Draghi con una celebre opera di Luzzati restò l’italiano”.

(Nell’immagine: Enzo Sereni con la moglie e i figli prima dell’ultima missione)