Dante e Purim

Il XVII Canto del Purgatorio ha un valore particolare nella Commedia dal momento che in esso si tratta del tema fondamentale dell’amore, considerato dal poeta, com’è noto, metro essenziale di giudizio delle azioni umane, nonché impulso primario dell’azione divina. È la presenza o l’assenza di amore che salva o perde gli uomini, la creazione dell’uomo fu un atto d’amore, fu l’amore a indurre Beatrice a chiedere a Lucia di intercedere per salvare il suo amato, smarrito nella selva oscura. E l’importanza dell’argomento è ben dimostrata dalla posizione centrale del Canto, esattamente a metà della Cantica, e quindi (considerando il primo Canto un prologo del poema) dell’intera Commedia. All’inizio del Canto il poeta viene colpito, in stato di veglia, da tre visioni, evocanti tre episodi tratti, rispettivamente, dalla mitologia greca, dalla Bibbia e dalla storia di Roma, utili a far comprendere la forza dell’amore e la gravità della sua negazione. Nella prima viene richiamata la crudeltà di Progne, che per vendetta fece divorare al marito le carni del figlio, e nella terza il suicidio di Amata, moglie di Turno, re dei rutuli, che non tollerava che la figlia Lavinia fosse data in sposa allo straniero Enea. Nella seconda, che è quella che ci interessa, si tratta di una delle storie più note e commoventi della Bibbia, quella di Assuero, Mordechai, Amàn ed Ester, narrata nel libro che prende il nome dalla famosa eroina. La vicenda è ben nota, e non c’è certo bisogno di rievocarla sulle pagine di questo giornale. In essa sono compendiati, in forma poetica, quelli che, nel bene e nel male, sono sempre stati i principali elementi caratterizzanti la storia di Israele: la paura della sopraffazione e dell’anninentamento da parte di forze malvagie; il coraggio e la capacità di resilienza di fronte alle avversità; la fiducia nell’Onnipotente e nel suo aiuto. Tante generazioni di ebrei, nelle più diverse epoche e località, hanno visto il volto di Amàn nei loro persecutori, e hanno tratto incoraggiamento e speranza dagli esempi virtuosi del nobile Mordechai e dell’impavida Ester. Prima di analizzare, nelle prossime puntate, il modo in cui Dante richiama la vicenda biblica, è bene fare qualche osservazione su quella che, nella cultura cristiana, è la prevalente interpretazione di questa storia. Al riguardo va osservato che, se nella tradizione ebraica la haggadà di Ester ha un’importanza decisamente centrale, in quella cristiana essa occupa una posizione molto diversa. Non solo, infatti, la storia non appartiene a quella parte del Ta-Na-Kh i cui contenuti sono stati più frequentemente utilizzati dalla Chiesa in chiave di praeparatio evangelica (come, per esempio, Esodo, Deuteronomio, Salmi, Proverbi e, soprattutto, Genesi e Isaia), ma essa ha anche dato alimento a letture e posizioni di natura decisamente antisemita. Una ricostruzione e interpretazione particolarmente interessanti di queste sono offerte in un volume, in corso di stampa, di Mariateresa Amabile, giovane e valente studiosa della legislazione tardomimperiale “de Iudaeis”, il terzo della serie intitolata “Feralis secta” (“setta ferale”, il termine spregiativo con cui gli imperatori romani solevano spesso indicare gli ebrei, per giustificare le norme sanzionatorie emanate a loro danno). Com’è noto, a ricordo della vicenda di Ester fu creata la festa di Purìm (“sorti”, perché nel libro si narra che gli ebrei sarebbero stati uccisi secondo un ordine estratto a sorte), durante la quale, per festeggiare lo scampato pericolo e la vendetta sul nemico (il perfido Amàn fu impiccato a una forca, come egli avrebbe voluto che morisse il probo Mordechai), era lecito e anche consigliato bere vino in notevole quantità, fino addirittura ad arrivare a uno stato di ebbrezza tale da non distinguere più tra le due figure, il malvagio e il virtuoso. Il Talmùd riferisce che tale licenza avrebbe portato anche a degli eccessi (in occasione di uno dei quali uno dei quali un rabbi avrebbe addirittura perso la vita), tanto da indurre i Maestri a meglio puntualizzare il senso di questo invito a bere vino, ponendovi dei limiti.
Quello che ci interessa, ai fini dell’interpretazione dei versi di Dante (su cui, come detto, ci soffermeremo successivamente) è il fatto che alcune fonti successive al libro biblico (come il Tragùm, la traduzione in armaico della Bibbia, o la Vulgata editio in latino di Girolamo) riferiscono che Amàn non sarebbe stato impiccato, bensì crocifisso (un dato su cui ci siamo già soffermati, su queste colonne, nel nostro contributo del 16 marzo 2016). Alcune testimonianze (anche se alquanto incerte e indirette) lascerebbero intendere che, in occasione della festa di Purìm, alcune comunità ebraiche usassero dare alle fiamme un’effigie di Amàn crocifisso, in segno di disprezzo ed esecrazione per la sua memoria. Ciò avrebbe posto le basi per una delle tante malevole leggende antiebraiche, atte a convogliare odio e disgusto contro gli ebrei, sulla quale torneremo nella prossima puntata.

Francesco Lucrezi

(20 luglio 2022)