Machshevet Israel
Il sacro e la violenza
Alcune settimane fa si è tenuto all’Università di Trento un seminario di filosofia politica sul tema ‘il sacro e la violenza’ a partire dallo scritto di Walter Benjamin Zur Kritik der Gewalt. Si tratta di un saggio apparso su una rivista di scienze sociali e politiche nel 1920-21 e da noi tradotto/edito da vari editori con il titolo “Per una critica della violenza”, nel quale Benjamin affronta la questione del ‘Dio violento’ nei testi sacri al giudaismo e al cristianesimo e dove cerca di districare un nodo complesso che avvinghia diritto, giustizia e moralità. Il seminario trentino si è concentrato sul tema a partire dalla Bibbia (Tanakh per gli ebrei, Septuaginta e Vulgata per i non ebrei) ed è stato condotto dal prof. Gian Luigi Prato, semitista già docente a RomaTre, il quale, con sorpresa dei non esperti in materia, ha cercato di mostrare come, quella della violenza, sia un’attribuzione necessaria alla teologia biblica nei termini suoi propri, ossia nel contesto storico-religioso dell’antico popolo di Israele che tale letteratura biblica produsse e canonizzò, facendo sì che essa diventasse Torà. Tema delicato, che spesso torna nei dibattiti per lo più in modo superficiale e che alimenta non meno spesso un’inconsistente opposizione tra un Dio biblico (inteso come ebraico, quello del cosiddetto Antico Testamento), che sarebbe violento e vendicativo, e un Dio evangelico (supposto cristiano, quello del Nuovo Testamento), sempre disposto al perdono e senza tratti violenti. Siffatto stereotipo, nella sua palese falsità testuale, è purtroppo difficile da sradicare ma chi legge e studia con strumenti adeguati le Scritture può facilmente smontarlo. Eppure, in nome di quel falso giudizio il monaco Marcione propose, nel II secolo, di espungere le Scritture di origine ebraica, ossia i libri del Tanakh, dal canone cristiano (proposta rifiutata, come noto). Il prof. Prato è un esempio di come, anche fuori dal mondo ebraico, si possa essere intellettualmente onesti e riflettere su tali questioni in modo corretto, ponendo cioè le domande giuste. Infatti, si tratta non di verificare se la divinità della rivelazione sinaitica abbia (anche) attributi che a noi paiono violenti; ma di capire quale sia la funzione della violenza nella Sua rappresentazione; e, con rigore ermeneutico, di chiedersi anche perché quei tratti violenti costituiscano oggi per noi un problema (ovvio, siamo oltre Benjamin ma restiamo nel solco di una storia della ricezione dell’opera benjaminiana, nella quale vanno inserite voci ebraiche importanti come Levinas e Derrida).
Un’analisi compiuta di un simile problema esegetico-culturale va oltre i limiti di questa riflessione, né potrei riassumere il ricco dibattito di quel seminario; ma in estrema sintesi occorre riportare il tema della violenza del sacro biblico non solo, esegeticamente, al contesto del pantheon dell’antico mondo semitico-occidentale (a cui la cultura ebraica apparteneva), confrontandosi con le divinità della civiltà ugaritica ad esempio; ma occorre comprendere, teologicamente, che quella violenza era/è inerente e intrinseca alla cosmogonia biblica, alla nascita e alla stabilizzazione del cosmo, del mondo diciamo oggi; in tal senso è una violenza non solo legittima ma necessaria, oltre che ineliminabile, al fine di dare fondazione a un mondo che emerge proprio dalla lotta contro il caos, ciò che chiameremmo le forze del male. Una bontà divina incapace di misurarsi almeno alla pari con la forza del male non solo perderebbe la sua stessa bontà, ma soprattutto non sarebbe in grado di creare il mondo (da qui i miti cosmogonici con cui, non a caso, si apre il testo biblico). In quei racconti non v’è eco diretto di questa lotta, perché il mito è già purificato letterariamente a scopi diversi, rituali ad esempio; nondimeno, senza la forza della giustizia – che non può non mantenere un minimo di inevitabile violenza – il mondo non si reggerebbe. La legge e la sua osservanza sono un proseguimento di tale Chaoskampf e divengono gli strumenti più efficaci per tenere in carreggiata il mondo (“affinché tenga” come dice il midrash).
L’idea che la giustizia, specie quella divina, debba essere e mantenersi forte viene simbolicamente espressa attraverso immagini che noi oggi tendiamo a chiamare ‘violente’; in vero, si tratta soltanto di immagini realistiche e necessarie a ricordarci che quella forza (ghevurà in ebraico) – sempre bilanciata dalla misericordia e persino nelle sue manifestazioni più violente – resta essenziale per dare senso al mondo, per dotarlo di senso etico. In effetti, è il nostro odierno senso etico, sempre in evoluzione, che contesta l’attribuzione al sacro di quella forza che confondiamo con un vago concetto di violenza o di vendetta. Nel Tanakh Iddio benedetto non appare mai vendicativo (come Gian Luigi Prato non ha esitato a ribadire) e il Suo attributo più duro resta quello della giustizia, che è sì tesa a retribuire e punire ma mai ispirata a una violenza fine a se stessa. Qui ogni pacifismo, oltre che un’indebita censura dei testi sacri, sarebbe una chiave sbagliata, che ne fuorvia la comprensione. Restano alcuni problemi: se pur non possiamo distinguere tra violenza giusta e ingiusta, veniamo ancora turbati da alcune pagine in cui la severità divina appare inspiegabile, o quasi, come la morte dei due figli di Aronne…
Su questi turbamenti della coscienza religiosa moderna occorrerà tornare.
Massimo Giuliani, Università di Trento
(21 luglio 2022)