Lo specchio e l’immagine
Se è indecoroso e oltraggioso dileggiare la memoria degli scomparsi è comunque discutibile anche l’accodarsi acriticamente al coro delle prefiche che piangono più per un obbligo meramente rituale che non per un’effettiva conoscenza della figura pubblica di chi non c’è più. L’esergo è di obbligata – nonché dovuta – cautela, affinché le parole che seguono, frutto di una riflessione e di un confronto non occasionale, non vengano invece lette come un esercizio livoroso, di gratuita polemica, ad eventi (ed esistenze) consumatesi. La persona in questione è Eugenio Scalfari. Della sua vita, in atto di morte, molto si è detto nei giorni trascorsi. L’omaggio nei confronti di un giornalista (e non solo) che nel corso della sua esistenza ha svolto un ruolo di primo piano in diverse imprese editoriali (e politiche) è comunque dovuto. La fondazione e la diffusione di un quotidiano come la Repubblica, negli anni Settanta, ha poi rappresentato un’innovazione nel mercato della comunicazione cartacea che rivelava, in diversi suoi aspetti, la capacità di cogliere il passo dei tempi. Scalfari, peraltro – ed anche questo è abbondantemente risaputo – arrivava già da un lungo percorso professionale e culturale. Mettiamo tra parentesi la giovanile esperienza fascista, poiché un’intera generazione che si formò negli anni del regime ne fu coinvolta, salvo poi “redimersene” in vari modi. Semmai soffermiamoci su due altri aspetti. Il primo di essi è la vocazione del mondo giornalistico, soprattutto quello meno giovane, di celebrarsi come l’epicentro della coscienza critica della società. Con le esequie di Scalfari, il cliché si è ripetuto. E se tanto ci dà tanto, nulla ci sarebbe di cui dolersi se non fosse per il fatto che la professione in questi ultimi decenni ha subito una tale trasformazione e torsione da scavare uno iato incolmabile tra la generazione dei predecessori e quella degli attuali operatori dell’informazione. Scalfari, del suo, qui c’entra poco, mentre invece conta l’irrealtà con la quale gli epigoni raffigurano ciò che egli è stato in relazione a quanto invece sussiste oggi: la sua indiscutibile influenza – che ha contribuito alla fortificazione del gruppo editoriale Gedi, vera corazzata dell’informazione – si è consumata in un tempo che non è più il nostro, dove la stessa professione del giornalista aveva dei significati, uno status sociale e delle ricadute sull’opinione pubblica che oggi si sono per non poca parte estinti. In altre parole, si celebra una raffigurazione iconica che ha scarsi legami, se non nessun rapporto, con il presente dei tanti che cercano di proseguire nell’impegno di informare. Tema complesso e non facilmente riassumibile, quest’ultimo, in poche righe. Un secondo aspetto è quello della cultura laica e autenticamente liberale (una parola, quest’ultima, inflazionata, abrasa e consumata dai molti abusi che si sono succeduti nel tempo) nei confronti delle minoranze. Parliamo sempre dell’Italia, evitando da subito giudizi frettolosi e, peggio ancora, contumelie gratuite.
La Repubblica, come quotidiano d’opinione, ha svolto un ruolo importante nell’indirizzare le opinioni dei suoi tanti lettori. Perlopiù di area cosiddetta “progressista”. Benché, come già ricordava l’amico Alberto Cavaglion, su quelle pagine vi abbiano scritto intellettuali appartenenti o vicini al mondo ebraico (tra tutti anch’io voglio ricordare Rosellina Balbi e Beniamino Placido), penne equilibrate e raffinate, colte e ironiche, riflessive e analitiche, nel complesso ciò che ci viene restituito dalle annate della testata è un senso di inappagamento. Come un’occasione in parte persa. Poiché pare che nel suo complesso quel quotidiano, e con esso Scalfari, abbiano sempre faticato molto a capire le peculiarità dell’ebraismo italiano. Non che dovessero avere come prima preoccupazione un tale obiettivo, beninteso. Ma quando si ha una così larga voce ed influenza, non svolgendo un lavoro di nicchia bensì di costruzione dell’opinione pubblica, è obbligo offrire ai propri lettori (elettori?) delle chiavi di interpretazione che non riposino sulla commistione tra pigrizia intellettuale e colpevole banalizzazione dell’oggetto delle proprie riflessioni. Il punto di non ritorno, ça va sans dire, è stata la vicenda israeliana, a partire soprattutto dalla guerra del Libano, tra il 1982 e il 1985. Un conflitto che ha scavato solchi incolmabili, a tutt’oggi vere e proprie ferite per nulla sanate. Il ruolo dell’informazione, al riguardo, è stato strategico. Nessun processo in piazza, beninteso. Ma un retrogusto amaro, paradossalmente rafforzato dalla scrittura dell’ultimo Scalfari, consapevolmente declinante, dove il suo laicismo si incontrava con le domande di fondo sul significato dell’esistenza che, formulate con non i pochi stereotipi del suo dire, ci hanno consegnato un senso di dolorosa assenza. Quella della comprensione della complessità di tanti temi di cui l’ebraismo (ed Israele, che non è cosa altra dall’ebraismo medesimo) rimane, volente o nolente, una sorta di specchio collettivo. A rigore di metafora, per sapersi vedere appieno, cioè non in maniera compiaciutamente deformata, bisogna imparare ad osservarsi criticamente dinanzi alla superficie riflettente. Impegno che a molti risulta oltremodo faticoso.
Claudio Vercelli