Il noir che racconta Berlino,
tra Weimar e il nazismo
Violenza, corruzione, avidità. Abusi di potere. Un fiume di pessimismo attraversa impetuoso il genere noir. Le macchinazioni si sprecano, i delitti si moltiplicano e nessuno è un eroe – tanto meno il protagonista. Anziché concentrarsi su microcosmi alla Agatha Christie, il racconto noir affonda i denti nella società e nella storia con accenti che spesso sfociano nella critica o nella distopia. È una chiave in cui il poliziesco ha esplorato di frequente gli anni del nazismo e se l’accuratezza storica è sempre da verificare con cura e l’utilizzo di certi scenari può sollevare talvolta delle perplessità, le atmosfere inquietanti spesso offrono uno spaccato suggestivo dell’epoca. Un classico sono i libri dello scozzese Philip Kerr, che con Violette di marzo nel 1989 ha inaugurato la celebre trilogia di Bernie Gunther. Berlinese beffardo e donnaiolo, il detective privato antinazista combatte contro il male in una città cupa e dilaniata dalla corruzione, l’antisemitismo e lo strapotere dei gerarchi. Kerr evoca in modo vivido lo spirito del tempo spaziando dalle convulsioni del regime nazista all’immediato dopoguerra. Il tramonto della Germania di Weimar e le tensioni che anticipano il Terzo Reich sono invece al centro dei libri di Volker Kutscher, che hanno come protagonista il giovane ispettore Gereon Rath. Appena arrivato da Colonia, Rath deve fare i conti con la frenetica vita notturna di Berlino, locali clandestini e traffici illeciti. Il ciclo di romanzi segue l’aggravarsi della crisi economiche, i conflitti politici e il montare della persecuzione antiebraica e in Goldstein l’ispettore si troverà a sorvegliare un gangster ebreo appena arrivato dagli Stati Uniti. La serie ha venduto oltre un milione di copie nel mondo e dal primo libro Ombre su Berlino è stata tratta la serie televisiva Babylon Berlin in onda su Sky e Netflix. Ci si sposta a Parigi sotto l’occupazione nazista con un’altra trilogia, quella di Romain Slocombe, scrittore, sceneggiatore e pittore, che porta in scena il personaggio più meschino che si possa immaginare. Il suo Léon Sadorski, ispettore di polizia antisemita e anticomunista, trova in quel periodo drammatico l’alibi perfetto per dare sfogo alle sue bassezza e si getta a capofitto nel suo lavoro arrestando gli ebrei da mandare nei campi di lavoro e dando la caccia a presunti terroristi. L’autore si era già soffermato sulle perverse dinamiche del collaborazionismo nel romanzo Monsieur le commandant (2011), accolto in Francia da un notevole successo, in cui un antisemita ripercorre in prima persona la scelta di denunciare agli occupanti la nuora ebrea – le lettere di delazione inviate dai francesi ai nazisti o al governo di Vichy si stima siano fra i tre e i cinque milioni. Si apre invece nella Sarajevo occupata dai nazisti un’altra fortunata serie firmata da Luke Mc Callin. È il 1943 e ne L’uomo di Berlino il detective berlinese Gregor Reinhardt si trova a indagare su una serie di omicidi: gli ufficiali tedeschi sono uccisi da un assassino ma i partigiani non c’entrano. Non si può dimenticare infine, anche se con diversa valenza letteraria, l’italoamericana Ben Pastor, autrice della fortunata serie che ha come protagonista Martin Bora, giovane soldato nella Wehrmacht, collaboratore dei servizi segreti dell’Abwehr, ispirato alla figura reale del colonnello Claus Schenk von Stauffenberg, fucilato il 21 luglio 1944 per aver tentato di uccidere Hitler. Accuratissimi nella ricostruzione storica, i libri di Pastor seguono il nazista riluttante Bora nella sua carriera militare fra Ucraina, Polonia e Italia. L’ultimo volume, La sinagoga degli zingari (un titolo evocativo e metaforico), si svolge nel caos dell’assedio di Stalingrado dove Martin Bora scopre che i due romeni sulla cui morte deve indagare hanno a che fare con importanti scienziati vicini a Fermi e Majorana.
Daniela Gross
(Nell’immagine: una scena di Babylon Berlin)