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L’Accademia dello jeudì
Qualche settimana fa scherzavo sui tesori degli idiomi degli ebrei italiani dell’Ottocento, spulciando nei carteggi di Lombroso e di Artom, fra macà e jeudì. In questi giorni esce “Vena Hebraica nel giudeo-italiano. Dizionario dell’elemento ebraico negli idiomi degli Ebrei d’Italia”, scritto dalla maggiore specialista, Maria Luisa Mayer Modena, con la collaborazione di Claudia Rosenzweig (LED Bibliotheca). Un dizionario del lessico derivato dalla componente ebraico-aramaica, il risultato di una ricerca pluridecennale sui Jewish Languages del Mediterraneo inaugurato a Gerusalemme da Schlomo Morag e continuato da Aharon Maman. Uno strumento di lavoro indispensabile per chiunque voglia capire come comunicavano gli ebrei nel nostro paese fino a non molti anni fa.
Alla voce “maca”, registrata più correttamente con “makkà”, troviamo un vasto repertorio di occorrenze, nel senso anche di “colpo, botta”, che autorizza a pensare che tale sia la caduta del governo Draghi. Una piaga è sempre un colpo duro da accettare, una botta fa decisamente più male. Il dizionario mostra con ogni evidenza la necessità di una istituzione che ancora manca all’ebraismo italiano e di cui vorrei invocare la creazione. D’accordo, abbiamo il Meis, d’accordo abbiamo la Fondazione Beni Culturali Ebraici. Il lavoro della Mayer Modena mette in evidenza la necessità di un’istituzione equivalente all’Accademia della Crusca. Lavori come questi non possono essere lasciati all’eroismo dei singoli. Fino a una trentina di anni fa a Torino uno dei luoghi spiritualmente più alti che si potessero visitare era, nella vecchia sede Utet, quel monastero laico, quella “schola” che era la redazione del Dizionario linguistico della lingua italiana. Il glorioso “Battaglia”, dal nome di chi l’aveva fondato. Oggi gli ebrei hanno il “Mayer-Modena”, ma non basta. Colpiva il religioso silenzio con cui una compagine di redattori sfogliava i classici della letteratura e compilava cartoncini a mano da sottoporre al direttore che approvava o disapprovava la citazione scelta per questo o quel lemma. In età digitale il lavoro potrebbe essere più agevole, ma dovrà avere una cornice e una redazione di persone competenti della “vena Hebraica”. Non sono imprese che si possano condurre in solitaria. Ormai le fonti documentarie, per esempio per l’Ottocento, sono talmente elevate da rendere difficile a una sola persona avere nozione di esse. Citavo i carteggi di Lombroso presenti online, di Isacco Artom, di Salvatore Debenedetti solo per rimanere nell’ambito del giudeo-piemontese. Qui fra l’altro va segnalato, a margine del racconto “Argon” nel “Sistema periodico”, l’ultimo capitolo che alla lingua dei patriarchi di Levi ha dedicato pochi mesi fa un fine studioso di storia della lingua come Fabrizio Franceschini in un saggio appena uscito (“Il chimico libertino”, Carocci). Non occorrerebbero grandi risorse economiche. Un piccolo sforzo e l’ebraismo italiano potrà vantare la sua Accademia della Crusca. Mi correggo, la sua Accademia dello Jeudì.
Alberto Cavaglion
(27 luglio 2022)