L’uno e il tutto

Un nuovo puritanesimo sta avanzando impetuosamente da oltre l’Atlantico, raggiungendoci come un’onda lunga, capace di sommergere tutto quel che trova dinanzi a sé. Si congiunge e si ibrida a ciò che già esiste e persiste, da tempo, nel Vecchio Continente. Come ogni forma di puritanesimo, poiché di ciò stiamo parlando, si presenta in quanto appello ai valori perduti, alla morale retrocessa, alle identità negate, al disordine imperante. Afferma di volere ristabilire una successione logica ed etica a quanto è stato alterato dai grandi mutamenti che le società stanno subendo. Parla a gran voce di risarcimenti, compensazioni ma anche riconoscimenti a fronte delle offese subite. Afferma che ad offendere le persone – intimamente, simbolicamente ma anche materialmente, quindi nei loro diretti interessi – sia la sovversione di un ordine costituito, un sistema di relazioni e rapporti che si è capovolto. Così facendo, si presenta come critica del potere quando, invece, a ben guardare è gioco di potere. Si tratta di un puritanesimo bino, poiché composto di due parti complementari ancorché antitetiche. La prima di esse predica le virtù del populismo, richiamandosi al soul profondo di un «popolo» che non è mai esistito se non nelle fantasie di quegli imprenditori politici che cercano di volgerne le sue raffigurazioni a proprio immediato beneficio. Reclama la flagranza e l’immediatezza di una «volontà» collettiva che, riposando nelle vene della società, richiederebbe solo di essere raccolta e manifestata attraverso l’unico medium possibile, ovvero colui che ne saprebbe cogliere l’essenza profonda. Il capo, ovvero il leader tale non per selezione ma per autoaffermazione. Il populismo asfissiante di questi anni, oltre a celebrare l’inessenzialità della politica come esercizio pluralistico, è infatti tripudio della morte dell’intermediazione, sostituita dall’illusorietà di un solo pensiero, un solo uomo, una sola intenzione. Si sposa efficacemente, non essendone per nulla la negazione bensì lo speculare capovolgimento, all’individualismo di coloro che pensano alla sovranità collettiva come ricalco della sovranità propria. Una sorta di proiezione del proprio ego, oltre i limiti dell’esistenza personale. Il populismo autentico e reale simula un’appartenenza comune, al pari di una condivisione affettiva insindacabile e inscindibile, quando invece celebra nei fatti l’abbandono degli individui al loro rispettivi destini. Come tale, sbeffeggia, ritaglia e frattaglia il pensiero complesso, quello che cerca di cogliere nessi e riflessi, liquidandolo infine come intellettualismo presuntuoso e vacuo. La seconda parte del neopuritanesimo è invece parte della risposta a questa marea montante. Come tale, si presenta in quanto antitetica ad essa mentre, concretamente, rischia di rivelarsi come una sua sorta di pendant, ossia di involontaria corrispondenza. Si tratta del puritanesimo dell’identità, quand’essa è declinata non come appartenenza ad un unico corpo collettivo (per l’appunto il «popolo») bensì ad una comunità ristretta di sodali, accomunati dal condividere in esclusiva uno specifico carattere, non importa quale. Semmai è fondamentale che costituisca il fuoco dell’esistenza. Un tale carattere sarebbe quindi il suggello di una condizione irripetibile, fondata su un valore morale a sé stante. Se ci si riconosce in esso, si diventa portatori viventi di una specie di superiorità, che ci distingue dal resto della collettività e dalla sua intrinseca mediocrità. L’identitarismo corporativo non è anti-intellettuale: piuttosto è ossessivamente cogitabondo, piegato com’è su se stesso, sulla sua propria auto-valorizzazione attraverso il richiamo ad una dottrina dell’interpretazione che ha un unico obiettivo, quello di darsi perenne ragione. Lo sconfinamento del populismo, dove l’individuo si perde nell’indissolubilità di un’appartenenza senza confini che non siano quelli dettati dal costituire una molecola del «popolo», si incontra quindi con l’auto-reclusione dell’identitarismo settario di gruppo, dove la definizione di se stessi è in rapporto esclusivamente ad un pensiero nel quale si cerca il riscontro maniacale e fazioso della propria precettistica. Al richiamo dell’indistinto piagnucoloso e vittimistico, proprio del populismo, si contrappone pertanto l’ammaliamento del monismo enfatico e illusorio di chi eleva il proprio particolarismo a norma universale. In buona sostanza, sono due celle per una sola prigionia. In mezzo, tuttavia, ci sta la grande frammentazione che attraversa il corpo intero delle nostre società, sempre più spesso sospese tra un liberismo sfrenato poiché senza limiti e il post-liberalismo, in ciò oramai tentate dall’archiviare la democrazia dell’inclusione, illudendosi che il proprio futuro possa essere garantito dai soli rapporti di forza e da null’altro.

Claudio Vercelli