Machshevet Israel Il silenzio di Aronne
La riflessione sul sacro e la violenza solleva non solo domande ma anche un certo turbamento, ad esempio dinanzi ad alcune pagine bibliche complesse, che tuttavia i maestri di Israele, turbati o meno, non hanno censurato. Tra queste annovero l’episodio della morte di Nadav e Avihù, due dei quattro figli maschi di Aronne, che si chiude con il silenzio, enigmatico ma certamente pieno di dolore, da parte del padre. “Nadav e Avihù presero ognuno il suo incensiere, vi misero del fuoco e posero su di esso dell’incenso e presentarono davanti al Signore un fuoco estraneo [in ebraico: esh zarà] che non avevano avuto l’ordine di presentare [asher lo tzivvà otam]. Allora uscì un fuoco [esh] da davanti al Signore e li divorò, ed essi morirono davanti al Signore. E Mosè disse ad Aronne: ‘Con questo fatto il Signore viene a dire: Per mezzo di quelli che Mi sono vicini mostro la Mia santità e perciò davanti a tutto il popolo sarò onorato’. E Aronne tacque” (Wayqrà/Lv 10,1-3). La tradizione rabbinica è unanime nel riconoscere che non c’è unanime spiegazione per questa tragedia che colpì la prima famiglia investita dal ruolo sacerdotale. Cosa fecero di male o di così grave Nadav e Avihù, per essere puniti attraverso una folgore?
Già il testo biblico offre la prima spiegazione: i due ‘non erano stati comandati’ di portare questo fuoco ‘davanti al Signore’! Che vuol dire? Non era forse loro compito l’accendere un tale fuoco? Ma hanno sbagliato le procedure, dice Bachyà ben Asher (XIV secolo) nel suo esteso Commento alla Torah: “Invece di portare il fuoco dall’Altare ai loro bracieri, hanno portato il fuoco dai loro bracieri all’Altare”. Nei riti, si sa, la procedura e il rispetto delle regole è tutto. Esiste un cerimoniale, un galateo del sacro. Se avessero rispettato le regole non sarebbe stati fulminati. A muoverli a tale non-rispetto della procedura, sembra dire l’esegeta medievale, fu una mancanza di fede nel Signore benedetto: forse, pensarono, il fuoco dell’Altare non sarebbe bastato anche per il sacrificio dell’incenso… Altri maestri ritengono che Nadav e Avihù siano entrati nel qadosh qedoshim del Santuario, dove non avevano il diritto di entrare, trasgredendo un ben preciso limite (solo a Kippur il solo sommo sacerdote poteva entrarci), e così trapassarono quel limite fissato alla stessa sacralità sacerdotale (Nachmanide tuttavia non pensa che essi fossero così stupidi…). Un midrash, e dunque un’interpretazione probabilmente più antica, suggerisce che compirono quell’atto di culto mentre erano ebbri o intossicati da qualche sostanza inebriante. Ciò spiegherebbe il prosieguo della storia: subito dopo infatti Mosè vieta ai loro fratelli e ai parenti di fare lutto (vv.4-7) e poi impone il tassativo divieto di bere vino o sostanze inebrianti quando in procinto di compiere atti di culto (vv.8-11). Se fossero davvero stati ubriachi, la loro responsabilità diminuirebbe? Forse, ma non la sensazione che l’ira divina sia stata davvero spietata con loro. Eccessiva, dal nostro punto di vista, e inspiegabile con il nostro metro di giudizio.
Saremmo tentati di liquidare tutta la storia come una rappresentazione arcaica del sacro, o di un sacro così arcaico da farci evocare un principio di evoluzione: emancipiamo la nostra idea del divino e tanta arbitraria severità non farà più parte dell’orizzonte religioso. Ma così condanniamo il Testo all’afasia! Addomesticare la narrativa biblica alla nostra sensibilità è una scorciatoia inutile, perché non illumina ma annulla soltanto il nostro bisogno di capire. I qabbalisti, che erano raffinati esegeti dei testi sacri, andarono direttamente al cuore del problema e crearono l’espressione sitrà achrà, l’altro-lato-del-Divino, appunto il lato oscuro che trascende totalmente la commensurabilità, razionale ed etica, in cui vorremmo costringerLo. I riti, il sacerdozio, i cerchi concentrici della santità templare, il galateo del sacro sono specie di schermature che ci proteggono da un incontro che, se diretto, annienterebbe l’essere umano. Allo Shema’ ci copriamo gli occhi. I cohanim benedicono a capo coperto. Persino Mosè dovette accontentarsi del retro del Divino, delle Sue metaforiche spalle. Quando l’incontro avviene fuori-tenda, all’aperto e senza schermature, allora c’è da avere paura. La morte può apparire come un volto del Divino, e come tale crea il massimo turbamento. Il divieto del lutto o la sua impossibilità equivalgono a confessare che esiste un côté tragico nel Divino che noi non possiamo elaborare, o meglio, per il quale non valgono le nostre normali regole del lutto. Nel silenzio di Aronne è l’umano che tace, che deve tacere sulla soglia di un’impossibile comprensione. Solo ciò che è comandato è comprensibile, e il sacro/santo per noi o sta in ciò che è comandato o diventa pericoloso, distruttivo. Wayqrà/Lv 10,1-3 non è il solo caso o l’unico ‘avvertimento’: Mosè ne aveva fatto esperienza in Shemot/Es 4, quando il Divino cercò di ucciderlo (fu salvato da Tzipporà con il sangue della circoncisione del figlio); il re Shaul ne fece esperienza quando Chi lo aveva scelto poi lo rifiutò; il re Davide lo esperì indirettamente, in 2Sam 6,1-8, con la folgorazione di ‘Uzzà che aveva toccato l’arca per futili motivi. Ci sarebbe in vero una via alternativa: la magia. Splendida terapia ai turbamenti del Divino! Peccato sia la strada opposta alla fede: ciò che questa custodisce chiudendo gli occhi, la curiosità magica dissolve aprendoli. Ecco perché la Torah è tanto severa con maghi e indovini e necromanti.
Massimo Giuliani, università di Trento