Ombre e lampi

Affermare, come certuni vanno facendo, che le prossime elezioni politiche di domenica 25 settembre siano “decisive” appare francamente eccessivo. Ovvero, ogni transito elettorale ha una sua rilevanza, almeno per il periodo in cui si svolge e per gli effetti che produce nel tempo. Dopo di che, il passaggio alle urne di questa seconda metà d’anno ha una sua specificità dettata dal fatto che diverse crisi si sono andate sommando e rinforzando reciprocamente, da quella politico-militare in corso nell’Est europeo (e non solo, pensando a Taiwan e alla Cina) a quella energetica, dal lungo corso della pandemia alle evidente strozzature che i processi di globalizzazione stanno rivelando fino al problematico panorama di una fragilità sistemica e sistematica del circuito finanziario. Il peso del debito, non solo di quello pubblico, è oramai tale da fare sì che le nostre economie viaggino ai bordi di un crinale dentro il quale possono velocemente precipitare. In un tale quadro, quindi, le formazioni politiche italiane calano i loro (pochi) assi, per così dire. Si arriverà al voto stanchi e demotivati; la previsione di una scarsa partecipazione parrebbe infatti essere l’unica cosa certa, almeno al momento. Detto ciò, rimane una pesante ombra su quei partiti che si candidano da subito ad ottenere la maggioranza dei consensi. Sia pure con molte differenze interne, infatti, un elemento che ne accomuna per più aspetti l’operato è la rivendicazione di una revisione degli equilibri istituzionali, quindi oltre la vigente Costituzione. Prima ancora che una questione di peculiare cultura politica si tratta dell’ancoraggio, in parte implicito e in parte manifesto, ad un’idea di organizzazione politica e sociale che dovrebbe andare oltre l’attuale democrazia liberale e sociale. Quest’ultima è infatti interpretata come inadeguata rispetto alla sfida dei tempi correnti. Ciò affermando, tali formazioni trovano diversi addentellati nel resto d’Europa. E non solo. L’asse politico della destra post-liberale si è infatti baricentrato verso temi che recuperano suggestioni, immagini e idee relative ad una visione organicista delle società. Dinanzi ai travagli della globalizzazione, infatti, propongono una ricomposizione delle nostre società intorno all’asse dell’identità etnica. I recenti pronunciamenti in tale senso da parte di Viktor Orbán, propugnatore di una “magiarità” come impronta di fondo dell’Ungheria, ne sono un esempio tra i diversi possibili. Così come l’azione di Donald Trump contro gli assetti e gli equilibri federali e costituzionali negli Stati Uniti. Più in generale, se si vuole trovare un terreno comune tra soggetti anche molti differenti lo si ha nel pronunciato scetticismo verso la politica dei diritti civili, ossia nei confronti dell’estensione del perimetro del pluralismo all’interno delle nostre società. L’identitarismo, infatti, non propugna la coesistenza di molte identità ma la comunanza di un’intera collettività dentro un «identico», ossia una condizione dove similitudini e analogie si fondono in un unico modo di essere e di rappresentarsi, al di là e a prescindere da qualsiasi cittadinanza costituzionale. A fronte di ciò, non ha alcun fondamento storico, ed ancor meno politico, preconizzare e richiamarsi al “ritorno del fascismo”. Ciò almeno per due ordini di motivi: prima di tutto perché un fenomeno storico non si ripete mai nel medesimo modo; poi, soprattutto perché non si può parlare del ritorno di qualcosa che non se ne è mai andato via del tutto, neanche con la frattura epocale del 1945. Infatti, non ritorna ciò che non si è mai esaurito: piuttosto, si rigenera, manifestando in nuove forme. Come tali, queste vanno indagate e identificate. L’esperienza totalitaria ha lasciato un lungo calco nella società europea, e segnatamente in quella italiana; una fenditura mai cicatrizzata. Ha quindi senso, se si torna all’oggi, il parlare di rigenerazione di motivi e atteggiamenti di fondo che trovano in quel passato una qualche risonanza. La soglia più pericolosa, superata la quale il rischio collettivo si fa stringente, è quella dell’assimilazione e dell’utilizzo di tali motivi nell’azione di governo o comunque di gruppi, partiti e organizzazioni che aspirano ad influenzare le istituzioni e le loro scelte di lungo periodo. Peraltro, i conflitti sociali del presente hanno una natura e delle dinamiche molte diverse da quelle di cent’anni fa. Oggi, la grande frattura che attraversa le nostre società, è tra quella parte della popolazione che gode delle garanzie offerte dal lavoro regolare, e quindi da un sistema di tutele collettive e, chi, invece, ne è escluso o se ne sente tale. Il vero conflitto, al giorno d’oggi, infatti non si gioca tanto (o solo) sul piano politico: lo scontro è semmai tra una concezione della società che sia e rimanga aperta e pluralista, come tale in grado anche di soddisfare concretamente i bisogni dei suoi componenti – tornando a porre in discussione le crescenti diseguaglianze materiali e culturali – e una pratica neoautoritaria, destinata a ridurre sempre di più gli spazi di autonomia, di emancipazione, di liberazione delle persone. La riduzione delle democrazie sociali a pure finzioni può peraltro benissimo coesistere con un mercato in ampia espansione, che non conosce nessun limite ed alcun confine. L’autoritarismo non necessità, al giorno d’oggi, di governi “forti” bensì di società fragili.

Claudio Vercelli