Il nuovo libro di Alberto Cavaglion
Fare i conti con il fascismo

Quanto è accaduto dal 1988 in avanti nei dipartimenti universitari, nei cataloghi delle case editrici e finanche nelle tesine per il nuovo esame di maturità potrebbe ammutolire un cittadino immaginario che, supponiamo, dall’Italia si fosse assentato sul finire degli anni Settanta e vi ritornasse alla fine all’alba del nuovo millennio. Le leggi razziali sono entrate a far parte dell’uso pubblico della storia. Non necessariamente però la quantità soddisfa le aspettative. Se c’era poco di che rallegrarsi per la penuria di ieri, poco ci si deve rallegrare per la dovizia di oggi. Giacomo Debenedetti riteneva pericolosi – per gli ebrei, ma non soltanto per loro – sia i periodi delle vacche grasse, sia quelli delle vacche magre. Una cosa giusta, auspicava: né troppo grasse, né troppo magre. Da questo equilibrio siamo lontani. Il groviglio di interessi concentrici, i riflettori sempre accesi abbinati ai primi vagiti di un uso della storia hanno finito con il mettere in ombra i progressi compiuti dalla ricerca, che sono stati immensi, ma segnati da curiose zone d’ombra, come per esempio lo strano silenzio sulla non abrogazione della legge del 1930. Sicché due pericoli dovrebbero impensierire chi voglia continuare a occuparsi di questi problemi: sfondare una porta aperta e frastornare lo studente, che invece andrebbe educato a un uso critico e non selettivo delle fonti. Il cambiamento è avvenuto intorno al finire del 1987. Potremmo considerare come terminus a quo la morte di Primo Levi e Arnaldo Momigliano (avvenuta a pochi mesi l’uno dall’altro) e le celebrazioni per il cinquantesimo anniversario delle leggi razziali (1938-1988). Una stagione era al tramonto, un’altra stava per aprirsi. Si pensi alla frase prima mai ascoltata, da allora divenuta rituale: «l’infamia delle leggi razziali». La firma apposta dal re d’Italia sotto i decreti sulla razza ha sorpreso chi come me ricordava che per lunghi decenni casa Savoia fosse stata inchiodata non all’antisemitismo, ma alla sua sudditanza a Mussolini, alla fuga del re a Brindisi. La “moda” delle leggi razziali, che si è vista negli anni Novanta, con apice intorno al 1998-1999, sorretta da uno schieramento di forze mai visto prima (storici illustri, in passato silenti, massime autorità istituzionali, grandi firme del giornalismo, registi), è maturata troppo in fretta per non suscitare qualche sospetto. C’erano state avvisaglie, ma il momento culminante di quella irresistibile ascesa si ebbe nelle sale cinematografiche – si era nelle vacanze natalizie del 1997 – quando uscì La vita è bella. A tacere delle insensatezze presenti nella seconda parte, colpiva l’ambientazione in una Toscana fascista edulcorata, tanto fuori del «cono d’ombra» della politica di sterminio nazionalsocialista, da collocarsi più a destra dell’ultimo De Felice. Eppure, lodi sperticate al film venivano da coloro che a De Felice s’opponevano con forza, ma al cinema dimostravano di accontentarsi di poco. Nello stesso anno in cui uscì il film di Benigni discese in campo nientemeno che il senatore Giulio Andreotti, il quale in un articolo sul «New Yorker», subito ripreso dal «Borghese», per difendere il silenzio di Pio XII pronunciava velenose accuse contro i senatori come Croce, rimasti zitti il giorno in cui a Palazzo Madama si votavano i provvedimenti contro gli ebrei. Era ulteriore motivo di sorpresa vedere come l’intervento suscitasse un largo consenso tra chi, avversario di Andreotti sui più sanguinosi territori della mafia, non provava imbarazzo a stare dalla sua parte e a lodarlo pur di attaccare il sempre molto inviso Pontefice Laico. Rispuntavano i ferrivecchi dell’intramontabile anticrocianesimo italiano, buono per tutte le stagioni. Il 1938 diventa dunque in Italia, nell’ultimo scorcio del secolo XX, l’episodio più visibile di un cattivo uso pubblico della storia. Uno fra i tanti, ma più di altri funzionale. Tutta la storia degli ebrei in Italia in quel decennio è cambiata. La figura di Primo Levi – morto l’anno prima che le leggi razziali divenissero un tema à la page – ha iniziato a prendere le fattezze di un’icona, irriconoscibile per chi ricordi la solitudine cui lo scrittore torinese fu abbandonato in vita. Tale rimozione si può dire che si sia perpetuata almeno sino al 1991, quando uscì il libro di memorie di Vittorio Foa. Fu un evento editoriale dal forte impatto. I lettori di quel grande libro – massime i lettori di sinistra – per la prima volta comprendevano che il problema non era riconducibile agli schemi del materialismo storico, come Foa spiega benissimo nelle venti pagine iniziali dell’autobiografia. Nella sinistra italiana la questione ebraica era rimasta a lungo un capitolo minore, in fondo trascurabile, della questione borghese. Di qui la sottovalutazione del problema, nel momento stesso in cui si compiva la tragedia, come prima di Foa aveva ricordato Enzo Forcella, sottolineando il silenzio delle forze clandestine operanti nella Roma occupata dai nazisti nei giorni della razzia del ghetto e in quelli che seguirono. Negli ultimi anni Ottanta inizia a diffondersi l’idea che l’Italia abbia conosciuto un tasso di antisemitismo pesante, degno di essere paragonato a quello viennese o berlinese o praghese. Hannah Arendt e Renzo De Felice già avevano negato la natura totalitaria del fascismo e come da ultimo ha spiegato Roberto Pertici, «tale negazione non implicava un alleggerimento delle sue responsabilità e dei suoi misfatti, ma semplicemente voleva proporzionare fra loro i fenomeni politici che si erano presentati fra le due guerre e quindi caratterizzarli adeguatamente». Si è poi iniziato a parlare di leggi «razziste», come se «razziali» non bastasse a qualificarle, ma con l’aggiunta di orribili neologismi («razzizzazione», «razzizzante», o più ancora «sessizzazione» – estensione al campo semantico limitrofo, ma non identico della questione femminile – su cui è intervenuta Anna Rossi-Doria). In breve, si sono confuse le intenzioni con i fatti, il dire e il fare, prendendo alla lettera i documenti ufficiali senza preoccuparsi di verificare se e come normative, circolari, pubbliche dichiarazioni fossero poi in grado di trasformare le parole in azioni. Scambiando i bollettini meteorologici per burrasche si è estesa la portata di provvedimenti capaci, all’atto pratico, di sortire l’effetto opposto a quello desiderato: come quando si gettò nel panico un buon numero di docenti assolutamente non ebrei oppure si tolsero dal mercato testi scritti in effetti da ebrei, ma incappati nell’operazione di bonifica libraria per questioni di oltraggio al pudore, prima che di offesa alla sanità della stirpe (esemplari i casi di Guido Da Verona, di Pitigrilli, dello stesso Alberto Moravia). L’improvvisazione non elimina la responsabilità. Smanioso di distinguersi dal nazionalsocialismo, l’antisemitismo fascista andò davvero per la sua strada e fu veramente autonomo, ma in conseguenza del suo dilettantismo ondeggiante fra rigore e lassismo. L’impreparazione, la superficialità sono armi micidiali in mano a chi governa uno Stato totalitario. Determinarono conseguenze imprevedibili i tratti, spagnoleschi e insieme «pietisti» della burocrazia, i labirinti normativi, oppure la situazione ancora più surreale dell’estensore di circolari ministeriali indotto a ricorrere al diritto ebraico per stabilire chi fosse ebreo. Dalle pandette di azzeccagarbugli improvvisatisi Grandi Inquisitori vennero fuori paradossi quasi comici per quelli che nel gergo di allora erano definiti «quarterelloni». Niente affatto risibili saranno i danni prodotti da una legislazione contro gli «stranieri», dalla quale si desume, sulla scia avviata con largo anticipo dagli studi di Klaus Voigt, un grande storico tedesco scomparso nel 2021, uno dei pochi che in quegli anni si è tenuto lontano dagli abusi dell’antifascismo militante. La vera atrocità mussoliniana consisteva in una serie di espulsioni realizzatesi nel 1939, favorite da prefetti e funzionari periferici, che alimentarono una squallida compravendita di clandestini ante litteram, passati garbatamente ai cugini d’oltralpe per evitare di affrontare un’emergenza per la quale si era impreparati, in applicazione di uno slogan ricorrente in quei mesi nel quale si riassume una peculiare forma mentis: «Sia facilitato l’esodo». La documentazione disponibile – se letta con equanimità – consente di trarre una prima, provvisoria conclusione, da enunciarsi con il massimo rispetto, ma anche con determinazione. La varietà di comportamenti – prima e dopo l’occupazione tedesca – che si osserva in Italia esaurisce l’intera gamma dei sentimenti umani […]. Nello stesso paese, nello stesso borgo alpino caduto sotto sorveglianza della guardia di frontiera, nella medesima città, talora dentro le abitazioni di uno stesso edificio l’inferno si è mescolato al paradiso. In mezzo il purgatorio del cinismo e dell’opportunismo: si va dall’estrema crudeltà degli ebrei «offerti ai tedeschi graziosamente già chiusi in campi di concentramento dagli ingenui alleati» alla solidarietà di soldati di un esercito che pure era sull’orlo della disfatta, del piccolo clero, della popolazione contadina. Fra 1938 e 1945, nei confronti della questione ebraica, gli italiani non mostrarono di essere né buoni né pravi. Furono semplicemente sé stessi, con i caratteri e i limiti tipici del costume nazionale così come è venuto conformandosi negli ultimi due secoli e forse più.

Alberto Cavaglion, La misura dell’inatteso – ed. Viella

(Dal capitolo “L’Italia della razza s’è desta”)