Il pensiero critico

In tempi deformanti – tali poiché “tutto quello che è solido svanisce nell’aria” (come avrebbe detto il filosofo) – pare sia quasi inevitabile il fatto che una parte di ciò che residua del pensiero critico possa trasformarsi in una sua pantomima. Poiché si ripropone come farsa, ovvero una macchiettista critica al potere nel mentre neanche sa dove si situino per davvero i poteri nell’età corrente e in cosa consistano per davvero. È pensiero critico ciò che evita la polemica strumentale e superficiale, oggi invece molto diffusa, per dare spazio alla riflessione articolata e argomentata. È pensiero critico ciò che analizza i fatti e i protagonisti cercando di cogliere relazioni, condizionamenti ma anche diversificazioni ed articolazioni. Come tale, il valore effettivamente critico del suo ragionare su un oggetto consiste nella capacità autoriflessiva: nel mentre pensa a ciò che gli è esterno, riflette anche su se stesso, ossia sugli schemi, sui metodi, sui criteri con i quali definisce di volta in volta temi e problemi, domande e risposte. Si tratta di una facoltà intellettuale, non di una dottrina. Nel momento in cui formula un giudizio, si interroga su come vi sia pervenuto. Come tale, tende a mettere in discussione le false evidenze del senso comune, ritenendo che la comprensione di ciò che chiamiamo realtà avvenga sotto il segno della complessità. Anche per questo insieme di ragioni, quindi, quando esso si tramuta in qualcosa d’altro da ciò che altrimenti dovrebbe continuare a costituire (ovvero la critica dell’esistente), rivela di essere divenuto, nei fatti, la medesima cosa che afferma di volere contrastare, ossia il panegirico dello status quo. Sotto le spoglie, tuttavia, di una fittizia vocazione alla contestazione, basata sulla fastidiosa ripetizione dei cliché dell’indignazione, dell’accusa, della condanna imbelle. Da ciò, non solo l’effetto grottesco (il volto che si trasforma in maschera) ma anche la deriva e lo spiaggiamento, ai quali fa da falsa carta di navigazione il ricorso al complottismo come planimetria di uno spazio altrimenti inconoscibile. Nel passato si sarebbe detto che «il difetto sta nel manico»: un modo come un altro per affermare che il fuoco del problema non sta solo negli effetti di un complesso processo sociale (tra i quali va annoverata la demenza delle idee, trasformatesi in materiale tossico per finti antagonisti) ma nella sua origine, ossia nella discrasia tra percezione del senso di quella trasformazione che stiamo vivendo e capacità di intervenire attivamente in essa, orientandola a nostro favore. Il senso di espropriazione del futuro e, con esso, del diritto a sentire come garantita la prospettiva di vita, è quindi dominante in molte società. Non riguarda tutti ma, a diversi livelli e con distinte intensità, interessa e interroga le collettività nel loro insieme. Soprattutto nel loro divenire. L’impotenza diventa allora la nota dominante. Alla quale molti sopperiscono con simulacri di critica, che sono soltanto manifestazioni di pulsioni regressive fini a se stesse. Oppure di introflessione solipsista gabellata, come profondità spirituale. Non è un caso, d’altro canto, se questo sia il tempo del rancore e della rabbia. Certi maîtres à penser, molto ben inseriti nel business dell’intelligenza, si sono prestati quasi da subito a questo abuso. Forse ci siamo illusi di potere essere soggetti storici quando invece scopriamo, a volte, di essere oggetti sostituibili. Il problema, in fondo, è sempre il medesimo: qualsiasi pensiero problematizzante (il volere cambiare) senza una sponda politica (il potere fare), è desolatamente condannato a riprodurre l’impotenza della quale dice invece di potere essere non solo diagnosi ma anche potenziale terapia. Sulla soglia di un mutamento sistemico e sistematico di cui cogliamo solo alcuni confusi aspetti, giullari e buffoni animano e intrattengono la scena collettiva. La credenza in essi, purtroppo, non immunizza dal rischio di future ricadute nel momento in cui ci si deve ricredere del sogno che si è trasformato in incubo. È questa l’amara lezione che certi fatti storici ci consegnano: se la memoria del passato è maestra di vita, nel presente sono assai pochi coloro che ne vogliono trarre insegnamento.

Claudio Vercelli