Pagine Ebraiche – Il richiamo di Dante

Fra Ottocento e Novecento la poesia, la letteratura e in particolare la Divina Commedia assumono un ruolo centrale nella costruzione dell’identità ebraica italiana in un processo di metamorfosi culturale senza precedenti. La conoscenza matura sui banchi delle scuole e raggiunge una sfera che travalica quella degli intellettuali per radicarsi nella coscienza collettiva, come racconta Alberto Cavaglion che al rapporto fra Dante e la cultura ebraica italiana nel suo ultimo libro – La misura dell’inatteso (Viella) – dedica un saggio di grande interesse. “Il numero di traduzioni in ebraico di poeti italiani è impressionante. – scrive – Se ne potrebbe fare un’antologia. La sola ode per Bonaparte di Alessandro Manzoni, Cinque maggio, vanterà decine di traduzioni soltanto in Piemonte. Nulla, in ogni caso, di paragonabile alla fortuna veramente endemica di canti di Dante girati in ebraico”. Non per caso la traduzione dell’intera prima cantica, realizzata da Saul Formiggini con immenso impegno e pubblicata a Trieste nel 1869, innesca un’accesa discussione teorica che chiama in causa sia la correttezza dell’ebraico usato dal traduttore sia il fatto di usare l’ebraico per rendere un poema cristiano. Le altre colonne portanti della maturazione di una rinnovata identità sono Tasso e Manzoni, che nell’Ottocento vanta un numero di traduzioni in ebraico pari o di poco inferiore soltanto a Dante (non i Promessi sposi, ma l’ode Cinque maggio, l’inno a Napoleone che aveva reso possibile quella libertà medesima). Più tardi il confronto si amplierà a comprendere Cuore di De De Amicis, che vanta perfino un’imitazione, un Cuore di Israele firmato da Guglielmo Lattes all’inizio del Novecento, così come il capolavoro di Manzoni si guadagna una riscrittura parodica di Guido Da Verona, libro che ritroviamo anche nella biblioteca di Giorgio Bassani. Nessuno riuscirà però a raggiungere la statura di Dante. Il poeta “diventa oggetto di venerazione, su un alto piedistallo simbolico, come la statua in piazza Santa Croce a Firenze, il suo profilo inizia a confondersi nelle case ebraiche con la copia del Mosè di Michelangelo o il ritratto di Montefiore”. Dante scandisce la stagione felice della conquista della libertà e dei diritti politici e accompagnerà il tempo drammatico delle leggi razziali e della persecuzione. La lezione del poeta risuona con potenza indimenticabile nella scrittura di Primo Levi, ma da Clara Sereni a Giorgio Voghera sono numerosi gli scrittori ebrei italiani che nei versi della Divina Commedia ritrovano il filo prezioso di un profilo culturale condiviso.

Gli ebrei emancipati dimenticano l’ebraico, ma scoprono il greco, il latino, poi, soprattutto, Dante. Il primo accesso agli studi profani, la conoscenza della letteratura classica e della filosofia si rafforzano tra i banchi delle scuole pubbliche e coincidono con la scoperta della Commedia. Non è quindi prerogativa dei dotti, che pure avranno la loro parte: Lelio Della Torre, Salvatore De Benedetti, Alessandro D’Ancona, lo stesso Graziadio I. Ascoli.
La funzione maieutica della scuola durerà un secolo: di un Dante «scolastico» ci si innamora nel momento in cui si conquistano libertà e diritti politici; a lui si ritornerà con nostalgia dolente quando si sarà costretti alla fuga, sradicati dalle proprie case. Un viaggio all’ingiù, come scriverà Primo Levi in Se questo è un uomo, in omaggio a un poeta da lui definito Sommo Padre.
Il viaggio all’ingiù in compagnia dei versi danteschi è tuttavia preceduto da un lungo e più sereno viaggio all’insù, durante il quale gli ebrei italiani si appoggiano all’opera dantesca per trovare sostegno nel mare aperto della libertà e dell’eguaglianza. Si attua, fra i banchi scolastici, il primo confronto tra Dante e la Scrittura biblica. Dalla Commedia il dialogo si estenderà poi al confronto con Tasso, Ariosto, Manzoni. Di questa storia, per dimensioni e popolarità, faranno parte Collodi e De Amicis, ma nessuno potrà competere, per intensità e durata, con la forza seduttrice del Sommo Padre; nessuno solleverà eguali palpiti, nessuno entrerà a far parte della vita intellettuale con eguale rapidità, nelle intelligenze più alte, ma anche, e direi soprattutto, nei suoi strati più umili. Intendo dire che non si dovrà volgere il nostro sguardo soltanto in direzione dei professori, dei rabbini che proveranno a tradurre in ebraico qualche canto, ma anche delle persone più semplici, rappresentanti della piccola borghesia che inizia a portare a memoria versetti danteschi con la stessa intensità con cui aveva memorizzato versetti dei Salmi o Massime dei Padri. L’uomo colto, dal canto suo, sa leggere adesso il greco, il latino, e non rimuove l’ebraico. L’elogio del vir trilinguis, ritrovato in un frammento del De vulgari eloquentia («Fuit ergo hebraicum idioma illud quod primi loquentis labia fabricarunt»; «Fu dunque la lingua ebraica quella che mossero le labbra del primo parlante», I, VI, 7) ritorna nei ricordi dei Maestri, ma l’orizzonte di attesa che dobbiamo esplorare è più vasto.
Le edizioni ridotte, il Prontuario del Dantofilo, i rimari, le antologie nelle biblioteche ebraico-italiane fra Otto e Novecento fanno corpo comune con una vastissima produzione di opuscoli e libelli di educazione morale ad uso dei giovanetti in vista della cerimonia della loro maggiorità religiosa. Come è esistito il Dante dei professori, così si fa largo un Dante nazionalpopolare, sapienziale, capace di trasformare in proverbi e motti la vita di tutti i giorni, il lavoro, gli affetti, le consuetudini linguistiche e sociali. La sua diffusione fra Otto e Novecento ha qualcosa di analogo alla fortuna che avranno le arie del melodramma verdiano, rossiniano e poi pucciniano, appartiene alla stessa temperie culturale che vedrà la diffusione impressionante di un’opera che ha avuto moltissimi lettori: Preghiere d’un cuore israelita (Imre Lev). Anche in questo caso si tratta di un adattamento dall’edizione francese, un concentrato di sapienza ad uso dei semplici. Curata dal rabbino Marco Tedeschi, nella seconda metà dell’Ottocento questa opera antologica fece irruzione con la stessa potenza emotiva delle tre cantiche dantesche. Si susseguono le edizioni, con varianti, integrazioni (l’ultima raggiunge le 752 pagine di due volumi legati insieme). Una piccola enciclopedia che, al pari delle tre cantiche dantesche dava risposte alle esigenze di tutti. Interessante osservarne i titoli: Preghiera dell’operaio, Preghiera di un commerciante, Preghiera del soldato, Preghiera pei medici. L’opera contribuisce con Dante a costituire una colonna sonora comune.
La lingua della Commedia si configura come se fosse un lassòn accòdesch, una lingua santa. Romanze e arie verdiane, salmi e preghiere del cuore, terzine dell’Inferno colorano la dimensione ebraica della belle époque.
Questa funzione educativa si attua in parallelo con la simultanea entrata in scena di una letteratura di buona divulgazione nata per diffondere narrazioni bibliche, leggende midrashiche, sequenze talmudiche. Una ipotesi di ricerca affascinante potrebbe essere questa: dal tardo Ottocento ai primi anni del Novecento, accanto alle traduzioni in ebraico dei canti danteschi e alla circolazione potremmo dire di massa delle Preghiere d’un cuore israelita si vedono convergere interessi di studio intorno al mondo delle leggende ebraiche. Si consolida il desiderio di rendere accessibile la lezione dei Maestri attraverso adattamenti, sintesi ad uso didascalico, secondo un procedimento non molto lontano da quello adottato da Laura Orvieto con le «storie della storia del mondo».

Alberto Cavaglion
Dal capitolo Dante e la cultura ebraico-italiana fra Otto e Novecento