Pagine Ebraiche – “Libri in valigia”
Dietro al muro, ignari
del proprio destino

Mezzo milione di persone rinchiuse nel ghetto di Varsavia, mentre la città oltre il muro ha praticamente voltato loro le spalle. I contrabbandieri sono al lavoro e le relazioni tra i due mondi non sono completamente interrotte. Quanto però all’interno i prigionieri del ghetto siano consapevoli della situazione del paese e della guerra non è chiaro. Le informazioni passano, ma quali? Quante persone sanno della sorte degli altri ebrei polacchi e del paese? Quante immaginano il proprio destino? Sono alcuni degli interrogativi su cui riflette il nuovo studio della storica Maria Ferenc “Tutti si chiedono che ne sarà di noi. Abitanti del ghetto di Varsavia di fronte alle notizie sulla guerra e sulla Shoah”.
“Una pubblicazione monumentale di 500 pagine, preziosa per capire le dinamiche dell’informazione all’interno del ghetto e quanto i suoi prigionieri sapessero del loro destino”, spiega il giornalista polacco Konstanty Gebert a Pagine Ebraiche. Per il momento il saggio è stato pubblicato solo in polacco, “ma spero che venga tradotto presto in altre lingue: dà una prospettiva nuova non solo sul ghetto di Varsavia, ma anche sulle condizioni di persone che si trovano in una situazione impossibile da accettare e allo stesso tempo da contrastare”. E per questo, aggiunge, “ha un’importanza universale”. Ferenc, ricercatrice dell’Istituto storico ebraico Emanuel Ringelblum, ha studiato a fondo le carte dello stesso archivio. “Ha fatto una rilettura accurata di testimonianze pubblicate e non, della stampa clandestina, delle lettere che arrivavano all’interno del ghetto. Ne emerge che l’immensa maggioranza dei prigionieri non aveva coscienza di cosa accadesse fuori. Da qui anche il titolo del volume: ‘Tutti si chiedono che ne sarà di noi’, citazione presente in una lettera arrivata da fuori a uno dei detenuti”. Anche chi aveva la possibilità di ricevere le informazioni dall’esterno, con missive provenienti da altre parti della Polonia in cui nero su bianco si parlava delle persecuzioni, non credeva che a lui sarebbe accaduto lo stesso. “Molti pensavano fosse impossibile che i nazisti potessero realmente uccidere così decine di migliaia di persone. E si preoccupavano sopratutto di sopravvivere giorno dopo giorno. Non sapevano neanche molto bene cosa accadesse dall’altra parte del muro, nella capitale, nel cuore della Polonia. E questo mi ha stupito molto perché l’interazione comunque tra dentro e fuori c’era. I contrabbandieri operavano e, molti non lo sanno, ma le linee telefoniche erano attive fino all’insurrezione dell’aprile del 1943. Le chiamate però erano molto rare”. Perché dall’altra parte non c’era più chi potesse rispondere. “Lo spiega perfettamente la poesia Telefono di Wladyslaw Szlengel, in cui racconta di come seduto di fianco all’apparecchio di colpo si rende conto ‘mio Dio, non c’è nessuno che possa chiamare’. E, pur di sentire una voce amica, telefona al servizio automatico che dava l’ora esatta”. Un mondo dunque disconnesso e per lo più ignaro del suo destino, che nel libro viene descritto nella sua incredulità di fronte alla morte. “Era difficile da credere. … Se si dicesse ora ‘che sposteranno trecentomila persone e le gaseranno’, ci credereste? […] Io non ci credevo” disse anni dopo Władysław Szpilman, sopravvissuto ai rastrellamenti e citato nel lavoro di Ferec. “È un libro – afferma Gebert – che ha dietro un impegno immenso e che spezza il cuore”. Inoltre rappresenta una speranza per il futuro. “L’Istituto storico ebraico, pubblicando lo studio di Ferenc, dimostra i grandi passi avanti che ha fatto. Questa realtà fu fondata nel 1947, ma durante la campagna antisemita degli anni Sessanta sotto il regime comunista fu praticamente ridotta al silenzio. Molti ebrei che vi lavoravano furono licenziati. Dopo il crollo del regime, per anni l’istituto ha lavorato per ricostruire la propria autorevolezza. La pubblicazione del lavoro di Ferenc è la dimostrazione che lo ha fatto bene”.