Periscopio – Giuditta e Rut

Abbiamo ricordato, nella scorsa puntata, la scena del Paradiso (XXXII. 7-12) in cui Dante descrive la visione di quelle che abbiamo chiamato le “cinque madri di Israele”, Rachele, Sara, Rebecca, Giuditta e Rut (un elenco, come abbiamo notato, parzialmente diverso da quello del Sèder di Pesach, secondo il quale le madri di Israele sarebbero quattro, Sara, Rebecca, Lea e Rachele).
Quanto alla presenza di Giuditta, il libro omonimo, com’è noto, non fa parte del canone ebraico, ma la vicenda in esso narrata – indipendentemente dalla sua storicità, da molti messa in dubbio – è universalmente entrata a far parte della rappresentazione collettiva della storia ebraica. Giuditta non esitò, per difendere il suo popolo, minacciato di distruzione dagli Assiri, ad assassinare il generale nemico, Oloferne, che si era invaghito di lei, approfittando del suo stato di ubriachezza. La scena dell’eroina che brandisce fieramente la testa mozzata del suo nemico seduttore è stata rappresentata in tanti famosi dipinti, e credo che nessuno, nel guardare queste tele, abbia mai provato sentimenti di condanna o riprovazione verso questa donna intrepida, anzi.
È stato scritto, riguardo all’accostamento di Giuditta alle altre quattro donne, tutte madri, che anche la sua impresa andrebbe intesa “come azione materna, in quanto dette la vita simbolicamente al popolo ebreo”. Ma ci permettiamo di dissentire da tale interpretazione. Giuditta non compie un’azione materna, compie un’azione violenta e coraggiosa, resa necessaria dal fine superiore di assicurare la salvezza al suo popolo. Anch’ella (come abbiamo scritto, nella nota del 19 luglio scorso, a propositi di Ester) avrebbe potuto facilmente approfittare della sua posizione di privilegio, per salvare la propria persona. Ma non volle farlo, preferì effettuare un gesto, evidentemente, altamente audace e rischioso, perché il dovere di solidarietà verso la sua gente veniva al primo posto. In questo la sua grandezza, giustamente premiata da Dante con l’inserimento tra “le cinque madri”. Esse non sono tali solo per la loro maternità biologica, e neanche per il loro spirito materno, ma per l’insieme delle virtù che qualificano un essere umano, a cominciare da quello che, per Dante, era il valore supremo, la giustizia. In nome della quale, a volte, è necessaria anche la violenza.
Quanto a Rut, l’omonimo libro, uno dei più brevi della Bibbia, narra, com’è noto, una intensa e delicata storia di solidarietà femminile tra due donne segnate dalla sventura, ma, ciò nonostante, animate da un tenace desiderio di resilienza, oltre che da un profondo amore reciproco. Noemi perde il marito, Elimelec, dopo di che muoiono anche i due figli, Maalon e Chelion. La donna decide quindi di tornare in Giudea, lasciando la terra di Moab dove risiedeva, ma ingiunge alle due nuore di fare ritorno dalle loro madri. Una delle due, Orfa, sia pure a malincuore, accoglie l’invito, ma Rut si oppone: “Non mi contrariare, col volere che ti lasci e me ne vada. Dovunque tu andrai, io verrò, dove tu prenderai dimora, dimorerò io pure. Il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio il mio Dio. Nella terra che ti riceverà dopo che sarai morta, io pure morirò, e lì avrò la mia sepoltura. Mi mandi il Signore ogni male, se la morte soltanto non mi separerà da te” (Rut 1. 16-17).
La storia, com’è noto, si conclude felicemente, col matrimonio di Rut con Boaz, dal quale, come ricordato, sarà poi generato il re Davide, ma io credo che non sia l’“happy end” il significato profondo della narrazione. Anche nel caso le due donne fossero andate incontro a un destino infelice, resta ammirevole e commovente il fortissimo legame tra di loro, che basta, da solo, a dare un senso alla loro esistenza. E il fatto che questo sentimento sia nutrito reciprocamente da due persone a cui una stupida retorica (che è però solo dei nostri giorni, segnati da imperanti egoismo e mancanza di solidarietà) attribuisce un fatele ruolo di ‘rivali’ dovrebbe indurre a riflettere. Noemi invita le nuore ad abbandonarla al proprio destino, per non essere loro d’intralcio (“io ormai sono vecchia”: Rut 1. 12), e lo fa per un atto d’amore. Ma a questo gesto di amore Rut oppone un altro gesto di amore: non si abbandona una persona sola e in difficoltà. Credo che, se anche Noemi fosse morta subito dopo che Rut ebbe pronunciato le sue parole di rifiuto, sarebbe morta felice, in quanto consapevole di non essere sola, e di essere amata. Il Signore le premierà entrambe, ma il primo premio se lo sono date da sole, col loro altruismo e la loro solidarietà.
Due grandi donne, dunque, e credo che sarebbe bello se, nelle sinagoghe e nelle Chiese, in occasione delle celebrazioni dei matrimoni, si desse lettura di qualche passo del libro di Rut (credo che a volte già accada). Quando ci si sposa, non ci si unisce solo a una singola persona, ma si assumono anche dei vincoli di sollecitudine e soccorso nei confronti dei congiunti del coniuge.
Grazie a Dante per avere contribuito a tenere alto il ricordo della coraggiosa Giuditta e della generosa Rut. Tanto il coraggio dell’una quanto la generosità dell’altra si fondano su un valore primario, tanto caro a Dante quanto negletto ai giorni nostri: l’altruismo.

Francesco Lucrezi