Israele-Turchia, disgelo diplomatico

Israele e Turchia hanno normalizzato le loro relazioni diplomatiche. A dare l’annuncio è il premier israeliano Yair Lapid dopo aver avuto un colloquio telefonico con il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan. “La piena ripresa delle relazioni con la Turchia è una componente importante per la stabilità regionale e un importante sviluppo economico per i cittadini di Israele”, ha detto il primo ministro Lapid. Questo significa che ambasciatori e consoli generali ritorneranno nei rispettivi paesi di lavoro. Le tensioni erano iniziate con l’incidente della Mavi Marmara nel 2010 ed erano poi proseguite con le posizioni sempre più aspre di Erdogan nei confronti di Israele. Poi, scrive il Sole 24 Ore, “la sempre maggiore presenza dell’Iran sciita nella regione, soprattutto in Siria – è la lettura degli analisti -, può essere stata una chiave di volta nel riavvicinamento. Insieme alla crisi economica che attanaglia la Turchia”. Questo passo con Ankara, aggiunge Libero, rappresenta la prosecuzione del “processo di stabilizzazione dei rapporti con i Paesi sunniti del Medioriente iniziato con gli Accordi di Abramo”.

Il negazionismo di Abbas a Berlino. In Germania e non solo si continua a discutere del caso generato dalle parole negazioniste del leader palestinese Mahmoud Abbas in visita ufficiale a Berlino. Abbas, interrogato dai giornalisti sull’opportunità di scusarsi con Germania e Israele per il massacro compiuto da terroristi palestinesi alle Olimpiadi di Monaco ’72, ha replicato affermando di poter citare “cinquanta stermini, cinquanta olocausti” commessi da Israele. Parole vergognose che, racconta oggi Repubblica, hanno ricevuto dure condanne internazionali, a partire da Israele. “Abbas che accusa Israele di aver commesso ’50 Shoah’ mentre si trova sul suolo tedesco non è solo una disgrazia morale, ma una mostruosa menzogna”, il commento del Premier Lapid. Repubblica riporta poi come il presidente dell’Anp – poi costretto a ritrattare – abbia già un passato da negazionista della Shoah. Nella sua tesi di dottorato infatti “si ripeteva più volte l’idea che la cifra dei sei milioni di ebrei annientati fosse un’esagerazione”.
A far discutere in Germania però non sono state solo le sue parole. Anche l’iniziale silenzio di Scholz è stato molto criticato, scrive Libero. Poi il cancelliere, che nel corso della conferenza stampa aveva contestato ad Abbas l’uso del termine apartheid nei confronti d’Israele, ha stigmatizzato chiaramente l’uscita del leader palestinese sulla Shoah. “Sono profondamente indignato dalle inqualificabili dichiarazioni del presidente palestinese. – le parole di Scholz – Per noi tedeschi, in particolare, qualsiasi relativizzazione dell’Olocausto è intollerabile e inaccettabile”. Ore dopo poi è stato convocato il rappresentante di Ramallah a Berlino a cui è stato chiarito che quel tipo di posizioni “gettano un’ombra oscura sulle relazioni della Germania con l’Autorità Palestinese”.
Sul Corriere Paolo Lepri commenta la vicenda evidenziando come “la frase di Abu Mazen abbia fatto il giro dei mondo seminando scandalo e orrore. Anche tra chi condivide le ragioni di un popolo che ha diritto ad una patria. Tanto è vero che l’ottantasettenne leader palestinese ha poi cercato di correggersi, diffondendo una dichiarazione in cui parla dell’Olocausto come del ‘più odioso crimine della storia moderna’ e smentisce l’intenzione di negarne l’unicità. Troppo tardi”.

Futuro dei negoziati. Sempre in tema di rapporti tra israeliani e palestinesi, Stefano Stefanini su La Stampa presenta un quadro della situazione attuale. Si sofferma in particolare sull’ormai congelato negoziato per portare alla soluzione dei due Stati. Scrive che tra i palestinesi in Cisgiordania c’è chi auspica uno Stato confederale e cita – con leggerezza – l’accusa di apartheid. Poi sottolinea come in ogni caso perché si arrivi a una soluzione “israeliani e palestinesi ci devono arrivare da soli. Gerusalemme forte della sicurezza derivante dall’accettazione regionale araba, la nuova generazione di Ramallah dei benefici dell’integrazione economica e della tragica futilità di due Intifade. Oslo va rivisitata, magari con un processo a tappe verso la piena statualità, come l’ipotesi di “confederazione”. Ma la questione palestinese non può né essere nascosta sotto il tappeto degli indiscutibili successi di Israele, politici, economici e culturali, e del relativo benessere dei palestinesi della Cisgiordania”.

Conti con il passato. “Non si si tratta di definire se Meloni sia fascista oppure no, ma se la sua forza politica sia libera da condizionamenti culturali e storici che possano comportare limiti e problemi all’agire governativo”. Lo afferma Ariel Dello Strologo, ex candidato sindaco di Genova e già presidente della comunità ebraica della città, intervistato nelle pagine locali di Repubblica. Secondo Dello Strologo le preoccupazioni internazionali sul partito della Meloni e sui conti che l’Italia ha fatto con il suo passato sono legittime “visto che quotidianamente leggiamo di singoli episodi di nostalgia, anche solo slogan o battute, fatti per scandalizzare, ma che riguardano un passato inaccettabile”. Per Dello Strologo il maggior allarme dovrebbe essere sul presente e sulla vicinanza di Fratelli d’Italia a “forze politiche che in Europa sono pronte comprimere i diritti delle persone e delle collettività, come in Ungheria, in nome del miglior funzionamento del Paese”. Della questioni fascismo parla anche Concita De Gregorio su Repubblica secondo cui darebbe un errore per la sinistra fare la propria campagna elettorale su questo. “Il pericolo non è quello che è stato, è quello che potrebbe essere. – sostiene De Gregorio – E se c’è, questo pericolo, bisogna indicare con precisione quale sia. Che la flat tax funziona al contrario di Robin Hood, per esempio: toglie ai poveri per dare ai ricchi”. Ancora sull’argomento conti con il passato, il politologo Giovanni Orsina avverte i lettori de La Stampa di evitare “i ripetuti allarmi contro le dittature” perché “rischiano di uccidere l’antifascismo”.

Radici, identità e diritti. La politologa Nadia Urbinati riflette su uno dei punti programmatrici della destra italiana, ovvero la “Difesa e promozione delle radici e identità storiche e culturali classiche e giudaico-cristiane dell’Europa”. Per Urbinati l’idea di difendere e promuovere specifici “radici e identità” fa acquistare ai diritti che si vorrebbero tutelare una “valenza aggressiva e discriminatoria”. “Diventano divisivi proprio perché si incardinano su visioni identitarie che sono interpretazioni tutt’altro che oggettive”. E ancora. Secondo la politologa “un punto rivelatore della trasformazione del diritto in arma di potere è proprio il termine radici ‘giudaico-cristiane dell’Europa’ (espediente, forse, per allontanare i dubbi di antisemitismo). Il trattino crea un lemma che dovrebbe impensierire gli ebrei credenti, i quali non concepiscono la loro identità come preparazione a quel che sta alla destra del trattino. Il quale, è indicativo di una visione che umilia e crea gerarchie”.

Daniel Reichel