Il Beitar e la complessa sfida del rilancio

A metà settembre del 2020 una notizia fece il giro del mondo: la possibile cessione di una parte delle quote del Beitar Gerusalemme a un membro della famiglia reale degli Emirati Arabi Uniti (il 50%, si scoprirà poi). Da poco erano stati siglati gli Accordi di Abramo. Una storica firma nel cui solco avevano iniziato a concretizzarsi fatti e situazioni inimmaginabili fino a pochi giorni prima. Tra tanti avvenimenti quello ebbe però una luce speciale. Sia perché il Beitar è da sempre una delle squadre più rappresentative d’Israele, in campo già ben prima che uno Stato ebraico diventasse realtà (vide la luce nel 1936, durante il Mandato britannico, su spinta di alcuni seguaci del sionismo revisionista di Ze’ev Jabotinsky). Ma soprattutto per via della fama sinistra di una parte della sua tifoseria che fa riferimento alla teppa estremista che va sotto il nome di “Familia”, nota anche alle forze dell’ordine per il suo atteggiamento ostile al mondo arabo e musulmano. Un’ostilità non solo verbale, con violenze che hanno creato sconcerto nell’opinione pubblica.
Si respirava un certo entusiasmo per quella ipotesi, maturata gradualmente e poi solennizzata in dicembre dalla stesura di un contratto di cessione. “Se ci sarà uno spirito di tolleranza, potremo creare un’atmosfera di pura amicizia” proclamava Moshe Hogeg, il proprietario del club grande sostenitore del negoziato con gli Emirati, nell’annunciare un piano per il trasferimento di metà Beitar allo sceicco Hamad bin Khalifa Al Nahyan. “Il nostro messaggio ai giovani – aggiungeva da Abu Dhabi, con volto raggiante – è che siamo tutti uguali e che insieme possiamo fare belle cose”. Sembrava l’inizio di un nuovo capitolo nella storia di un club tra i più tifati e vincenti del Paese (sei i titoli nazionali in bacheca). E invece, da allora, tutto è girato storto.
L’accordo con gli Emirati si è presto dissolto. Mentre Hogeg, dopo aver annunciato l’intenzione di liberarsi dal Beitar, è stato arrestato con l’accusa di frode e violenza sessuale. Anche la squadra è finita nella tempesta, con bilanci in dissesto e la possibilità di vedersi rifiutata l’iscrizione al campionato. Uno scenario evitato sul gong grazie a un nuovo passaggio di proprietà nelle mani dell’imprenditore Barak Abramov e all’arrivo di nuove risorse su spinta dell’ex sindaco di Gerusalemme Nir Barkat (uno dei tanti tifosi illustri). Tutto questo accadeva poco più di una settimana fa. Nel frattempo il torneo è ripartito, con il Beitar tra i 14 protagonisti al via. Anche se per il momento solo in negativo. L’esordio in casa del Maccabi Netanya, avvenuto ieri sera, è stato infatti catastrofico: sconfitta per 4 a 1 e ultimo posto in graduatoria per via della peggior differenza reti di tutta la Ligat Ha’al. Ci sarà tempo per risalire la china, si augurano i suoi sostenitori. E magari per ritrovare un po’ di quella “normalità” mancata negli ultimi mesi. Ma guai ad illudersi troppo, chiosa il Jerusalem Post: “Nel calcio israeliano, e specialmente in casa Beitar, è saggio prevedere l’imprevedibile”. Sullo sfondo resta il triste capitolo di quella mala pianta del tifo estremo ancora ben radicata nella galassia ultrà. Affrontarla, sradicarla: una partita ancora più decisiva nel futuro del Beitar di un rilancio solo sportivo ed economico. Nel marzo scorso, dopo l’ennesimo episodio di odio anti-arabo, il ministro della Difesa Benny Gantz aveva definito la Familia “un’organizzazione terroristica”.