Il nuovo bipolarismo
Prima di avanzare qualsiasi considerazione nel merito dei tanti problemi che ci circondano, e per buona parte anche ci assediano, sarebbe forse buona cosa riconoscere che il mutamento delle società nelle quali stiamo vivendo ha subito una netta e radicale accelerazione. Qualcosa che anche solo pochi lustri fa non saremmo nemmeno riusciti ad immaginare. Questa velocizzazione ci impone una sorta di continua rincorsa rispetto ai mutamenti che si verificano, trasformando gli scenari nei quali siamo abituati ad operare. Il cambiamento è un processo al medesimo tempo inarrestabile e consustanziale al sistema di relazioni sociali, ai rapporti economici ma anche culturali, scientifici e tecnologici che caratterizzano la comunità umana. Che tutto ciò comporti non solo opportunità ma anche e soprattutto molti costi è, tuttavia, la consapevolezza che sta dolorosamente subentrando tra quanti, fino a non molto tempo fa, confidavano invece in una progressione senza troppi scossoni. Sociologi, politologi, economisti rilevano come stia avvenendo un vero e proprio cambio di paradigma nella vita delle persone. L’intrico e la reciproca influenza tra le molte trasformazioni di sistema, a partire dall’ambiente nel quale viviamo, nonché la loro ricaduta di lungo periodo sulle società, è destinato a riflettersi anche sui regimi politici, ossia sui criteri di governo delle collettività umane. La centralità della guerra russo-ucraina si inserisce in questa consapevolezza, al netto del fatto che l’attenzione del grande pubblico sia scemata nel corso di queste ultime settimane. Il fatto stesso che sia una guerra di media/bassa intensità, ossia destinata a durare nel tempo coinvolgendo due nazioni e il loro sistema di alleanze, tuttavia senza che da ciò scaturisca da subito un confronto risolutivo, si inscrive non solo nelle dinamiche belliche di quel conflitto ma nella logica di progressivo logoramento degli equilibri geopolitici di cui è espressione e risultato. L’aggressione all’Ucraina, infatti, ci dice non solo che la guerra nell’Europa centro-orientale torna ad essere possibile ma anche che l’obiettivo di fondo non è unicamente la conquista di alcuni territori bensì la ridefinizione, nel corso del tempo, degli equilibri strategici nel Continente. Allagando lo sguardo, plausibilmente non solo in esso, posta l’escalation di attenzioni ostili che nel Sud-Est asiatico si stanno verificando da parte della Cina nei riguardi di Taiwan. Il fatto che le rivendicazioni dei russi e quelle dei cinesi non costituiscano di per sé una novità nulla toglie al riscontro che esse si stiano traducendo solo ora in aperta azione militare. Poiché sussiste un nesso, non solo temporale ma anche logico, tra ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi e il riscontro che non si sia invece verificato prima; in altre parole, oggi è possibile non solo pensare ma anche agire senza più dovere adottare le cautele e le mediazioni che sembravano indispensabili fino a poco tempo fa. In quanto siamo entrati in una età dove i vecchi equilibri, tra gli Stati così come al loro stesso interno, si stanno progressivamente sgretolando. Il fuoco del confronto è sempre più spesso tra il sistema anchilosato delle democrazie liberali e sociali e il modello autoritario che l’Oriente (insieme ad una parte delle classi politiche occidentali) sta promuovendo come soluzione alle difficoltà che le società vanno vivendo dinanzi ai contraccolpi di una globalizzazione non governata. Detto questo, il ricondurre il confronto in atto a una contrapposizione bipolare che ricalcherebbe per buona parte le dinamiche del Novecento non ci restituisce il senso della profondità delle fenditure che attraversano anche e soprattutto le nostre società. Le quali vivono oramai da tempo in un vero e proprio campo di tensioni tra le fatiche dei sistemi democratici e il semplicistico ma seducente richiamo populista. Qualcosa che adesso sembra sopravanzare e ibridarsi all’impatto violento del radicalismo islamista, altrimenti dominante da sé fino ad anni recenti. Il problema, in altre parole, non viene solo dall’esterno ma matura dentro la crisi intestina ai circuiti politici nazionali. Esiste una sorta di linea di continuità tra i sommovimenti avviatisi nel 2016, con la Brexit e la presidenza Trump, proseguiti poi nel tempo (con, ad esempio, il referendum promosso dal separatismo catalano nel 2017) e quell’atmosfera sospesa tra insubordinazione istituzionale e voglia di guerra civile che si manifesta nell’oggi. Qualcuno ha scritto che «la guerra in Ucraina, per l’Europa, è anche un gigantesco traduttore automatico, che illumina retrospettivamente molto di quel che è accaduto negli ultimi sei anni. I massacri, le torture, le deportazioni e tutte le atrocità compiute per ordine di Putin sono la verità dietro le fake news; sono gli uomini in carne e ossa dietro i troll, i bot e la propaganda da cui siamo stati bombardati negli ultimi anni online, in tv e sui giornali; sono l’artiglieria pesante chiamata a finire il lavoro lasciato a metà dagli utili idioti che hanno contribuito a destabilizzare, dividere e indebolire l’Unione europea e l’Occidente. La guerra è la verità che ci attendeva al termine della post-verità, parola dell’anno 2016, l’anno in cui Trump, in campagna elettorale, invocava esplicitamente l’aiuto di hacker russi affinché trafugassero le email di Hillary Clinton. “Russia, se sei in ascolto, spero sarai in grado di trovare le trentamila email che mancano”, dichiarava ad esempio in giugno, in conferenza stampa, riferendosi a uno dei tanti pseudo-scandali montati ad arte dalla propaganda trumputiniana. Per poi aggiungere, significativamente: “Penso sarai grandemente ricompensata dalla nostra stampa”. È esattamente quello che accadrà» (Francesco Cundari). Non c’è nulla di nuovo, né tantomeno di celato, nel disegno che va delineandosi attraverso la contrapposizione delle democrazie storiche agli autoritarismi imperialistici, ai quali prudono da tempo le mani. I secondi si adoperano contro le prime avvelenandone il dibattito, cercando di condizionarne gli umori prevalenti, captando e manipolando il disagio crescente. Lo fanno con il sostegno diretto o indiretto ai radicalismi politici che attraversano la scena politica e culturale, senza distinzione di colore poiché tutti funzionali a un unico obiettivo, quello di destrutturarne gli equilibri. Lo manifestano con la reciprocità empatica che nutrono verso gli eversori degli ordinamenti istituzionali, senza la preservazione dei quali nessuna democrazia può garantire libertà e giustizia. Non tutti hanno capito quale sia la posta in gioco, di qui in avanti. L’Ucraina è una sorta di campo dove si tastano le possibilità e le plausibilità per ulteriori aggressioni. Non necessariamente militari, posto che la faccia nascosta del populismo e del sovranismo, di cui l’autocrate moscovita è il maggiore referente ideologico e politico anche nei nostri paesi, è la consunzione degli istituti democratici. Il modello di riferimento, al riguardo, è quello offerto dall’Ungheria di Orbán e dalla Polonia di Duda, Kaczyński e Morawiecki: asservimento dei poteri indipendenti, soppressione del sistema istituzionale di check and balance, emarginazione delle opposizioni (trasformate in dissenso), iperconservatorismo sociale e culturale, accentramento in poche mani dell’effettivo potere decisionale e così via. Il tutto in un clima di vera e propria guerra civile. Si tratta, è il caso di ripeterlo, di un calco che si propone come alternativa alle farraginosità delle democrazie, alle quali viene ingiustamente imputata la responsabilità delle gravi e crescenti diseguaglianze prodotte da una globalizzazione per nulla governata, nel nome di un fantasmagorico «mercato» che da sé avrebbe aggiustato tutto. Ancora Cundari: «Se Putin dovesse conquistare l’Ucraina e Trump dovesse riconquistare la Casa Bianca è assai improbabile che l’attuale assetto delle alleanze politiche e militari, all’ombra delle quali abbiamo coltivato la nostra illusione di pace perpetua, durerebbe a lungo. Il tentativo di smantellare la Nato e lasciarci al nostro destino di fronte all’imperialismo russo, fallito durante il primo mandato di Trump, potrebbe riuscire nel secondo. Forse allora anche tanti capziosi discorsi sull’opportunità di aiutare gli aggrediti assumeranno un’altra risonanza, persino negli studi dei nostri talk show».
Claudio Vercelli
(21 agosto 2022)