Egitto, chiave per la sicurezza d’Israele
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L’operazione Alba condotta a inizio agosto da Israele contro il gruppo terroristico della Jihad Islamica è stata un successo. L’organizzazione sia a Gaza che in Cisgiordania è stata duramente indebolita, uscendo dallo scontro molto ridimensionata. Hamas, che controlla la Striscia, si è tenuto lontano dal confronto. Il mondo arabo non ha espresso particolare sostegno al gruppo, che, pur potendo contare su soldi e armi iraniane, è apparso piuttosto isolato.
I tre giorni dell’operazione si sono conclusi con la mediazione egiziana che ha portato a una stabile intesa per un cessate il fuoco. Il Cairo ha così ribadito l’importanza della sua posizione nell’area. Non a caso il presidente Al Sisi è stato ringraziato sia da Israele sia dall’Autorità nazionale palestinese per i suoi sforzi, mentre il presidente Usa Biden si è congratulato con lui per il risultato diplomatico. Il suo ruolo è dunque sempre più centrale nell’area e il coordinamento con le autorità israeliane fino ad ora ha sempre funzionato. L’operazione Alba ha però lasciato qualche strascico e ora sono emerse tensioni tra i due paesi. In particolare l’Egitto ha accusato Israele di non aver rispettato i termini della tregua con la Jihad islamica. “Ci sono giorni di tensioni che derivano dalla fine dell’operazione Alba. Speriamo che la crisi passi nei prossimi giorni”, ha dichiarato il ministro della Difesa Benny Gantz in queste ore all’emittente Kan. “Sapremo come stabilizzare le relazioni, è nell’interesse di entrambi i Paesi e a volte ci sono alti e bassi”, ha aggiunto. In particolare l’Egitto, scrivono i media locali, aveva chiesto a Israele di interrompere temporaneamente le azioni di sicurezza in Cisgiordania, temendo lo scoppio di violenze diffuse tra i palestinesi. Una richiesta che, apparentemente per motivi di comunicazione tra politica ed esercito, non ha avuto seguito. E così la notizia di un’operazione israeliana a Nablus contro una figura di spicco delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa (gruppo terroristico legato a Fatah), ha originato la rabbia egiziana. Per placarla, Gerusalemme ha inviato al Cairo il capo dei suoi servizi di sicurezza, Ronen Bar. Il numero uno dello Shin Bet ha incontrato il ministro dell’Intelligence egiziano, il generale Abbas Kamel, che nel frattempo ha fatto saltare la propria visita ufficiale in Israele. L’obiettivo è quello di calmare le acque e da parte egiziana, scrivono alcuni quotidiani israeliani, sarebbero arrivate richieste di liberazione di miliziani palestinesi. La tensione, pur limitata, dimostra la grande attenzione che Gerusalemme deve avere nei rapporti con i suoi alleati regionali, scrive su Yedioth Ahronoth la giornalista Smadar Perry. “La cosa più intelligente da fare sarebbe che la nuova generazione di diplomatici israeliani imparasse dai funzionari di sicurezza più esperti su come mantenere la fiducia della controparte, non fare dichiarazioni affrettate ed evitare di calpestare ferite aperte”, scrive Perry. Nel frattempo, aggiunge, “i media statali egiziani sono tornati a riferirsi a Israele come ‘il nemico sionista’, ma nulla è stato detto riguardo a una violazione della fiducia tra i Paesi. Ciò lascia intendere che le tensioni simboleggiano una crisi minore e che Al Sisi sia troppo impegnato in altre questioni per prestare molta attenzione a questo ostacolo”.
D’altro canto, ribadisce Perry, non si deve sottovalutare l’importanza di mantenere rapporti stretti con l’Egitto. Questo ricordando nuovamente quanto accaduto con l’operazione Alba. Il Cairo è riuscito a mediare il cessate il fuoco seguendo con successo tre strade, spiega Ofir Winter, docente del Dipartimento di Studi Arabi e Islamici dell’Università di Tel Aviv. “In primo luogo, ha impedito a Hamas di unirsi allo scontro; se ciò fosse avvenuto, un conflitto limitato avrebbe potuto trasformarsi in una campagna totale. L’influenza egiziana su Hamas, compresa la gestione del valico di frontiera di Rafah, la fornitura di beni e carburante a Gaza e l’avanzamento del processo di ricostruzione nella Striscia, ha svolto un ruolo di contenimento di fronte all’instabilità della situazione”, scrive Winter. Seconda via seguita da Al Sisi, il coordinamento con il Qatar, che condivide un ruolo di grande influenza su Hamas. “Invece di competere per il ruolo di mediatore come nell’operazione precedente, Egitto e Qatar hanno imparato a lavorare insieme per bilanciare l’equazione di bastoni e carote – politici e finanziari – a loro disposizione”, evidenzia Winter. Terzo elemento, la disponibilità dell’Egitto di lavorare per il rilascio di alcuni esponenti della Jihad islamica, tra cui Khalil Awawdeh e Bassam al-Saadi, al momento sotto custodia israeliana. Il nome del primo è tornato di attualità domenica, quando la Corte suprema d’Israele ha dichiarato di non avere competenza sulla decisione di tenere Awawdeh in stato di arresto. L’uomo è attualmente ricoverato in ospedale in gravi condizioni perché ha avviato uno sciopero della fame. La sua situazione e potenziale liberazione, scrivono i media, potrebbe essere ora oggetto delle discussioni tra Israele ed Egitto.