Periscopio – Dante e Daniele
Come tutti sanno, Dante, smarrito nella “selva oscura”, sente placarsi la paura che lo aveva attanagliato quando, giunto ai piedi di un colle, vede le sue cime già illuminate dalla luce del sole, trovando in questa visione un segno di speranza. Dopo essersi un po’ riposato, inizia quindi a salire lungo le pendici di quell’altura in cui intravede, sia pur confusamente, una via di salvezza. Ma la sua salita è impedita da tre fiere, che gli sbarrano la strada.
La prima è una lonza, “leggera e presta molto”, ricoperta di “pel macolato” (Inf. I. 32-33), la cui presenza induce il viandante a tornare indietro. L’ora mattutina e la “dolce stagione” primaverile, però, lo rincuorano. Ma torna a infondergli terrore la vista di un leone, che sembra venirgli incontro “con la test’alta e con rabbiosa fame” (47), tanto spaventoso che la stessa aria sembra tremare. Ultima, e più paurosa di tutte, appare infine una lupa, tanto magra da sembrare carica di tutte le umane “brame” (49): una “bestia senza pace” che, avvicinandosi al poeta, abbatte infine il suo coraggio, costringendolo a tornare indietro, nel buio della selva (“là dove ‘l sol tace”: 60). Persa ogni speranza, il viandante torna quindi indietro, sconfitto e terrorizzato (“rovinava in basso loco” [61]: un precipizio tanto fisico quanto spirituale), finché, com’è noto, incontrerà Virgilio, che gli aprirà la strada della salvezza.
Non c’è dubbio che le tre bestie abbiano una funzione allegorica, e la critica dantesca, da sempre, si è interrogata su quale sia il loro significato. Si può dire che le diverse teorie formulate si dividano, complessivamente, in due categorie. Alla prima appartengono le interpretazioni che possiamo definire ‘morali’, ossia volte a vedere, in ognuna delle bestie, uno dei tre principali peccati dell’uomo, identificati sulla base di passi scritturali (in particolare, la prima lettera di Giovanni, 2. 16): la lussuria – o, secondo altri, l’invidia – (raffigurata dalla lonza), la superbia (il leone), l’avarizia (la lupa). Si inscrivono nella seconda categoria, invece, quelle letture che possono essere qualificate ‘politiche’, dal momento che dietro le tre bestie ravvisano tre potenze terrene, il cui malvagio comportamento, ai tempi di Dante, sarebbe stato causa di perdizione: Firenze (la lonza), la Francia (il leone), la Curia di Roma (la lupa).
Al di là della decifrazione dell’allegoria, non c’è dubbio che il poeta abbia tratto ispirazione, per la rappresentazione delle tre bestie, dalla visione onirica contenuta nel settimo capitolo del libro di Daniele (3-7):
“Io, Daniele, guardavo nella mia visione notturna ed ecco, i quattro venti del cielo si abbattevano impetuosamente sul Mar Mediterraneo e quattro grandi bestie, differenti l’una dall’altra, salivano dal mare. La prima era simile ad un leone e aveva ali di aquila…
Poi ecco una seconda bestia, simile ad un orso, la quale stava alzata da un lato e aveva tre costole in bocca, fra i denti, e le fu detto: “Su, divora molta carne”.
Mentre stavo guardando, eccone un’altra simile a un leopardo, la quale aveva quattro ali d’uccello sul dorso; quella bestia aveva quattro teste e le fu dato il dominio.
Stavo ancora guardando nelle visioni notturne ed ecco una quarta bestia, spaventosa, terribile, d’una forza eccezionale, con denti di ferro; divorava, stritolava e il rimanente se lo metteva sotto i piedi e lo calpestava: era diversa da tutte le altre bestie precedenti e aveva dieci corna”.
Dante è spaventato dalla lonza, dal leone e dalla lupa, dunque, sull’esempio di Daniele, inquietato, nella sua “visione notturna”, da una fiera simile a un leone, un’altra simile a un orso, una terza simile a un leopardo e un’orribile “quarta bestia”, con denti di ferro e dieci corna, non somigliante a nessuna delle creature viventi conosciute.
La derivazione dell’allegoria dantesca dal capitolo libro del libro di Daniele (che, com’è noto, al pari del secondo, ha un’origine diversa dagli altri, essendo scritto in aramaico, mentre i rimanenti sono in ebraico), ripetiamo, non può essere messa in dubbio. Meno probabile, invece, che Dante abbia tratto ispirazione dagli Oracoli Sibillini (che pure mostrano alcune assonanze, sul piano visionario, con alcune immagini del poema), ove si parla (3.388-400), fra l’altro, della paura scaturente dal futuro avvento di un essere mostruoso, che soggiogherà l’intera Asia, generando “dieci corni”, ma sarà poi sconfitto, per lasciare il campo al “corno cresciuto dopo”.
D’altronde, come ho cercato di dimostrare in altra sede, in un mio piccolo intervento giovanile (parliamo di quarant’anni fa), è certo che il terzo libro degli Oracoli ha tratto diretta ispirazione dal settimo capitolo di Daniele, per cui la possibile influenza del testo sibillino su Dante non avrebbe comunque un’importanza primaria, dovendosi comunque risalire, direttamente o indirettamente, a Daniele.
A due domande, invece, occorre dare risposta. Quale può essere il significato delle quattro bestie di Daniele? E cosa significano, invece, le tre fiere di Dante?
Cercheremo di rispondere, rispettivamente, nelle due prossime puntate.
Francesco Lucrezi