Il rischio dell’entropia
Che il seguito della «modernità liquida» (così come Zygmunt Bauman definiva i tempi più recenti) e di una globalizzazione anchilosata, nonché priva di baricentri egemonici, possa essere una società mondiale basata sul rapporto tra sostenibilità e digitalizzazione ce lo dicono molti segni che si vanno accumulando. Capiamoci tuttavia sulle parole, per risparmiarci equivoci. In questo caso è da intendersi come sostenibile non ciò che nasce da una scelta condivisa di autolimitazione, in base alla quale le collettività umane optano consapevolmente di rivedere i regimi di produzione e consumo, bensì quanto si impone come vincolo e obbligazione da parte delle classi dirigenti rispetto alle aspettative e ai concreti livelli di qualità della vita della maggioranza delle persone. Più che entrare in un’epoca di scarsità stiano transitando, in maniera accelerata, verso un regime – non solo economico ma anche culturale – dove al discorso pubblico sull’indebitamento (che già dalla crisi della finanza del 2008 si è andato affermando), e quindi sulla necessità di politiche restrittive e di austerità per contenerne gli effetti, si accompagnerà una svalutazione dei debiti sovrani (e con essi dei patrimoni collettivi), anche attraverso il ricorso all’inflazione. Un elemento, quest’ultimo, che ci eravamo per buona parte dimenticati negli ultimi trent’anni. Le due cose, peraltro, si tengono per mano. Sostenibilità, in questo contesto, diventa quindi riduzione dei margini di protezione, tutela e garanzia offerti alla collettività, da sé già in affanno per i contraccolpi di una lunga crisi di trasformazione in atto da ben prima del manifestarsi della pandemia. Si manifesta come «sostenibile», infatti, ciò che si afferma in quanto onere e soggezione non eludibili. Tutte le politiche di riduzione del debito, ad esempio, si innervano dentro questa logica. Dove la verticalizzazione della decisione espropria l’individuo di qualsiasi residuo spazio di manovra. La digitalizzazione, a sua volta, sempre più spesso si presenterà come un trasferimento di una molteplicità di funzioni sociali, produttive e non, al circuito della trasmissione e della comunicazione elettronica. È un processo di astrazione di un numero crescente di azioni collettive, consegnate non più alle relazioni tra esseri umani ma alla loro mera riproduzione tecnico-simbolica. Non è un caso, al riguardo, se tra i tanti che non riescono a cogliere il senso degli eventi ci siano coloro che si affidano a pseudo-interpretazioni di natura complottistica: quando la realtà diventa indecifrabile, è facile cercare scappatoie semplificatorie, denunciando il mondo come il prodotto di una congiura. Non è una prerogativa esclusiva del nostro tempo: già in passato, in età di transizione, dinanzi all’incomprensibilità dei fatti ci si consegnava alla convinzione che la ragione di un tale oscurità riposasse in qualche manipolazione più o meno occulta. D’altro canto, da tempo oramai si registra una frattura tra l’azione di tecnostrutture – che sembrano operare in assoluta autoreferenzialità, sostanzialmente indifferenti rispetto alla ricadute sociali delle loro scelte (di potere) – e il resto della collettività, che sempre più spesso si sente abbandonata ad una sorta di deriva, dovendo porre risposta e rimedio da sé a problemi per i quali non ha strumenti risolutivi, e che quindi matura un diffuso disagio, variamente espresso ma comunque orientato al crescente disincanto rispetto alle regole e alle norme condivise, vissute come inadeguate rispetto alla sfida delle circostanze. Il senso di disancoramento di tanti è ancora più accentuato se si pensa all’irrazionalità, ovvero alla mancanza di coerenza tra certe scelte collettive, i risultati che producono e i costi che bisogna comunemente sostenere. La complessità dei sistemi sociali nei quali viviamo corrobora questo indirizzo di fondo, i cui effetti sembrano ricadere a cascata sui cittadini. C’è un rischio di fondo, quello di un’entropia dell’agire umano, ossia di una vera e propria inversione di rapporto tra mezzi e fini: oltre un certo grado di trasformazione e manipolazione, qualsiasi circuito, da quelli economici a quelli sociali, rischia di rivelarsi ingestibile, e quindi controproducente, per la maggior parte degli individui. Ripartire dal senso di smarrimento che ne deriva sarà un punto ineludibile, se si vuole tornare a tessere la trama di una società responsabile (e come tale autenticamente sostenibile) perché basata sul nesso effettivo tra libertà, giustizia ed emancipazione. L’alternativa, altrimenti, sono gli autoritarismi di ritorno.
Claudio Vercelli