Meina e il ricordo della strage:
una occasione perduta
Il 22 settembre cade l’anniversario dell’eccidio che nel 1943 a Meina, sulla riva del Lago Maggiore, ha visto trucidate sedici persone. Ci sarà chi allontanerà lo sguardo dallo specchio d’acqua dove i soldati del primo battaglione della Panzer-Division Waffen SS – LSSAH hanno fatto annegare i corpi di sedici ospiti dell’Albergo Meina, dopo averli catturati, segregati per sette giorni al termine dei quali vennero trucidati e fatti sparire nelle acque per cancellarne le memorie.
Le vittime avevano trovato rifugio dalle persecuzioni nell’albergo di Alberto Behar, anche lui ebreo, proveniente dalla Turchia, che ha potuto scampare con la propria famiglia da una simile fine per intervento del console turco. È lo stesso Behar che ci ha lasciato la testimonianza dell’accaduto. Oggi il luogo dove sorgeva l’albergo è attraversato da una nuova promenade – un lungolago – uno “struscio” attrezzato, come tanti, con il proprio arredo urbano, panchine per godersi il panorama, delimitato da un parapetto che invita ad affacciarsi sul paesaggio. È un percorso per lo svago e la spensieratezza che l’amministrazione ha offerto alla cittadinanza e, a margine di questo, ha voluto salvare uno scorcio di memoria dall’oblio. Ed è lodevole di aver scelto di lasciar un segno dell’eccidio mediante una installazione d’arte contemporanea.
L’installazione, una monumentale testa alta cinque metri, fusa in bronzo, con ossidazione verde, così da sembrare recuperata dal fondale del lago, è opera dell’artista Ofer Lellouche. Nato a Tunisi, vive e opera tra Israele e la Francia, e il suo lavoro è frutto e sintesi di anni di una ossessiva ricerca, di innumerevoli tentativi attraverso disegni e modelli, di intendere i limiti d’espressività del volto umano. L’effigie percepita, proprio per questo, è scialba, silenziosa, priva di occhi, naso, bocca, orecchi, mutilata dei propri recettori dei sensi, senza la possibilità di capirne l’età, razza o genere. Comunica sbigottimento. È un ritratto di chi è rimasto attonito, pietrificato come la moglie di Lot, per aver visto l’orrore. Potrebbe anche essere la faccia di chi è spaventato per le conseguenze di quello che ha compiuto o di chi si sente colpevole per non aver impedito atti tremendi.
Un insieme di intenzioni e presupposti che però sono stati disattesi da una banalità del progetto: presumibilmente, c’è chi è rimasto convinto che indirizzando lo sguardo della testa verso il lago senza affacciarlo sulla città abbia assolto al suo ruolo.
Il posizionamento in un luogo qualunque, privo di relazioni con il disegno della città, almeno in apparenza senza rapporto col progetto della stessa promenade, l’ampiezza del vuoto piatto lasciato intorno, rende l’opera misera, compromette perfino la potenza e la sua eloquenza espressiva. La considerevole distanza della testa dal limite del lago, in più separata da un parapetto, uguale e continuo, dalla riva, interrompe una intuitiva relazione, inibisce la capacità retorica che possiede un opera d’arte che era capace e intendeva evocare. Se sorgesse il dubbio per la mia severa interpretazione riportata in questa nota, la panca con la spalliera rivolta al memoriale, posta tra l’installazione e il lago, è l’inconfutabile prova.
David Palterer, architetto
(29 agosto 2022)