Giornata europea della cultura ebraica Rinnovarsi sempre, come la luna
Ogni giorno il nostro Creatore infonde una vita nuova e invita l’uomo a riconsiderare ciò che ci dona oggi; ogni mattina l’uomo dovrebbe considerarsi una creatura nuova posta in un mondo che anche esso è una creazione nuova, ogni giorno alla ricerca della propria identità. Tutta la vita ebraica è scandita da un ritmo temporale di creazione ininterrotta. La dimensione del tempo è scandita, nel calendario ebraico, da due unità fondamentali, shanà (anno) e chòdesh (mese), che portano in sé un duplice significato, quello del ripetersi del tempo (la radice di shanà significa “ripetere”) insieme a quello della novità, dell’imprevisto (la radice di chòdesh significa infatti “nuovo”). Il termine ebraico shanah, anno, ricorda sia la ripetizione ciclica successiva del tempo, sia il shinnui, la sua differenziazione, il suo cambiamento nelle varie epoche. Per l’ebreo la monotonia della successione e della ripetizione ciclica del tempo sembra non esistere affatto. La vita dell’uomo si svolge dunque seguendo un criterio circolare e lineare: nell’anno i moadìm (le ricorrenze religiose) segnano le tappe di un cammino preordinato, ma questo cammino porta in sé l’irriducibile prospettiva del rinnovamento.
Il tempo, sia in una prospettiva psicologica come “durata” interiore, sia in quella dell’esperienza, come sequenza di eventi, contiene ambedue le dimensioni: ripercorrere circolarmente la storia sulla base di fermate prestabilite e legate ai meccanismi della memoria (quegli appuntamenti chiave rappresentati dai moadìm), ma anche essere in grado di uscire dal quotidiano e attivare un rinnovamento etico e spirituale. Ripassare per la stessa fermata non deve mai essere una semplice ripetizione, e non è un caso, forse, che nella Torà le date delle ricorrenze siano sempre calcolate a partire dall’inizio del mese, il rosh chòdesh, come a indicare che nel ricordo e nella riproposizione attuiamo un rinnovamento.
Il nesso tra la celebrazione del capomese e il concetto di innovazione è evidente nella prima delle leggi consegnate al popolo ebraico. Il primo precetto dato dall’Eterno a Mosè ancora in terra d’Egitto, prima del manifestarsi dell’ultima piaga, riguarda il calcolo del tempo a partire dal primo mese: “Allora il Signore parlò a Mosè e ad Aronne nel paese d’Egitto dicendo: Questo mese (Nissan) sarà per voi il principio dei mesi dell’anno” (Esodo 12, 1-2). La Torà, stabilendo che il primo mese dell’anno coincide con l’inizio dell’esodo dall’Egitto, ci insegna dunque che lo scandire del tempo e dei mesi, il rinnovarsi nel tempo, deve essere frutto di una maturazione del popolo. Come se il Signore comunicasse agli ebrei che, nonostante i prodigi a cui hanno assistito e a cui ancora assisteranno, sarà di fatto la loro capacità di rinnovarsi il fattore fondamentale che potrà farli uscire dall’Egitto. Il testo della Torà scrive: hachodesh hazé lachém, “questo mese/rinnovamento sarà per voi”, che potrebbe essere letto anche: questa capacità di rinnovarsi è “vostra”, appartiene a voi. È quindi fondamentale cercare di comprendere i motivi della coincidenza del capomese con il novilunio nel calcolo ebraico del tempo. Molte spiegazioni sono state avanzate per giustificare la preferenza accordata dall’ebraismo al ciclo lunare piuttosto che a quello del sole. È certo che una particolare relazione ha legato l’astro lunare alla vita dell’uomo sin dai primordi dell’umanità. La luna, con la sua periodicità, è stata considerata l’astro che stabilisce i ritmi dei cicli della vita, in particolare delle piogge, della vegetazione, della fertilità e della fecondità. In secondo luogo, questa relazione è stata determinata dal fatto che sia l’uomo che l’astro lunare risultano assoggettati alla legge del divenire ovvero a momenti in cui si cresce, si cala e si sparisce, o piuttosto in cui si cala, si sparisce e si cresce perché, si badi bene, la scomparsa della luna è seguita sempre da una rinascita, la “luna nuova”, per cui mai il suo oscuramento è da considerarsi definitivo.
Questi motivi sono talmente presenti nell’ebraismo che la luna ha occupato un posto di grande rilievo nella tradizione. Nella coscienza ebraica la luna è diventata per l’individuo una specie di archetipo, un richiamo di memoria continua e perenne, e il suo rinnovarsi diviene il simbolo di un rinnovamento spirituale e psicologico. L’aspetto simbolico si accentua nella ricorrenza, molto sentita presso il popolo ebraico, del rosh chòdesh, termine in cui è presente la radice di chadàsh, “nuovo”, che indica il concetto di rinnovamento e di palingenesi richiamato dal novilunio. Per l’ebraismo l’uomo deve tendere a rinnovarsi ogni mese alla ricerca della propria identità come accade nel ciclo lunare e come è suggerito dal ciclo biologico della donna, posta, non a caso, al livello più alto dell’evoluzione.
La forza e lo splendore del sole cessano con il tramonto, e la grandezza del sole ha quindi un limite, ma la luna, viceversa, pur se più piccola del sole, pur se meno luminosa, pur se invisibile ai nostri occhi, abbagliati dalla luce solare, è presente anche durante il giorno; non c’è un vero e proprio tramonto della luna.
La dimensione ebraica insegna a non porsi sotto il dominio esclusivo del sole. En chadàsh tàchat hashémesh, dice Qohelet (“non c’è niente di nuovo sotto il sole”), una frase che ci richiama alla considerazione che le grandi civiltà adoratrici del sole sono finite ineluttabilmente nei musei, sostituite da altre civiltà che a loro volta hanno seguito lo stesso corso storico di nascita, espansione, formazione di un impero e declino fino alla crisi che porta al tramonto. Quando la memoria diventa solo un esercizio commemorativo senza essere accompagnata dal rinnovamento in ogni nuova generazione, allora en chadàsh, “non c’è novità”, non c’è più crescita e si rimane in un sistema di pensiero ripetitivo e autoreferenziale. L’immagine della luna ci indica altresì una dimensione scevra da trionfalismi: da qui nasce una sensibile attenzione a qualsiasi incompiutezza, a qualsiasi carenza. La fisionomia della luna non è mai uguale a se stessa e ogni giorno modifica la sua rappresentazione di sé. La sua pienezza a metà mese è l’illusione di un giorno, perché il giorno successivo è già luna calante. Da qui il segreto di fare di questa carenza e di questa incompletezza una forza, un’opportunità, fino a fondare l’identità di Israele su questa carenza.
La dialettica tra shanà e chòdesh che scandisce la dimensione del tempo è presente anche nel percorso di studio della Torà. La prima parola del capitolo 19 di Esodo che introduce il Matan Torah, il “dono della Torà”, è Bachodesh azè, ossia “In questo mese”, senza menzionare l’anno. Il Matan Torah non è dunque all’insegna dell’anno, perché è il mese/novità, piuttosto che l’anno/ripetizione, che dà alla Torà il suo ritmo e la sua caratterizzazione. Similmente, alla base dello studio c’è il “ricevere e trasmettere” e quindi la “ripetizione”; ma la più importante caratteristica dello studio è il chiddùsh, l’interpretazione innovativa e rinnovante. Studiare la Torà vuol dire essere in grado, nella ripetizione, di dire novità. Vuol dire accettare la sfida di trovare nell’antico, anzi nel perenne, ciò che è assolutamente nuovo. E dunque anche nella Torà, come in fondo nella realtà che essa commenta, c’è prosecuzione, c’è successione, c’è continuazione, ma ci deve anche essere novità e rinnovamento. “Le parole della Torà crescono e si moltiplicano” dicono i Maestri, proprio per sottolineare il perenne e incolmabile debito in cui si trova l’uomo rispetto allo studio della Torà, che rappresenta una fonte inesauribile di sapere. Lo studio, più che un dovere o un obbligo, è una condizione esistenziale di dinamismo e di continuità, tesa a scuotere il soporifero corso della vita quotidiana. È lo studio che aiuta a divenire un Talmid Chakham (un discepolo del sapiente) e non un Chakham (saggio), il che significa che la saggezza è consapevolezza della nostra incompletezza e limitatezza, e fare di questo un punto di forza. Forse è questo il motivo per il quale nel Talmud non esiste la pagina numero 1. Si inizia sempre dalla pagina 2, per insegnarci che anche quando si suppone di aver studiato tutto ci mancherà sempre una pagina!
Rav Roberto Della Rocca, direttore dell’Area Formazione e Cultura dell’UCEI
Articolo tratto dal sito www.ucei.it/giornatadellacultura