Senza radici
Non durerà ancora molto la campagna elettorale estiva, trascinandosi tra i tempi morti della pallida attesa, l’afoso concentrato di illusioni e disillusioni, le promesse rituali (peraltro, prima ancora che assai poco credibili, espresse semmai con ancora minore convinzione) e un sostanziale disincanto, che rivela come le aspettative dei molti siano basse se non nulle. L’incertezza, non tanto rispetto ai possibili risultati delle urne bensì riguardo all’effettiva capacità, chiunque dovesse vincere, di governare processi complessi, le cui radici sopravanzano i confini nazionali, è quindi molto diffusa. Si combina all’affaticamento di un’intera collettività che da anni sta misurando sulla sua pelle il costo della trasformazione in atto che, per i tanti, implica una retrocessione nella scala sociale. Anche per questo il combinato disposto tra rimandi al fascismo, all’antifascismo e al rapporto tra eredità del passato e sua ricadute nel presente da un lato, così come a impegni nel rivoluzionare gli assetti istituzionali esistenti dall’altro, risulta stancante prima ancora che inverosimile. Esistono senz’altro culture politiche, perlopiù in disarmo, dietro alle candidature e alle liste in competizione ma, volere vedere riflesso ciò che avvenne cent’anni fa in quanto potrebbe avvenire con i tempi futuri, risulta essere poco credibile. Se il lupo perde il pelo ma non necessariamente il vizio, dovrà comunque operare in un territorio che non conosce e che di certo ha ben poco a che spartire con gli scenari del passato. Mentre c’è chi vaticina improbabili sospensioni a venire della democrazia, varrebbe invece la pena di soffermarsi sull’effettività dell’interruzione di efficacia ed efficienza della politica, così come degli esecutivi, due grandi matasse che solo in piccola parte l’intervento dei cosiddetti «tecnici», e delle coalizioni obbligate nel nome dell’emergenza e della «solidarietà nazionale», sono riuscite ad affrontare. Ancora meno a sbrogliare. Come dire: gli elettrodomestici sono al loro posto ma manca l’elettricità. Cosa ancora più drammatica se si pensa che le prospettive a breve e medio termine sono assai poco promettenti se non addirittura molto preoccupanti. Ci vorrebbe, a rigore di metafora, molta energia ma questa sta difettando. Qualcuno pensa di poterla sostituire con il rimando agli «scostamenti di bilancio» e a un debito che si è già fatto incalcolabile, rinviando a chi verrà dopo la slavina economica e finanziaria che ne potrebbe derivare. Così come intende barricarsi dietro a fragili frontiere, rese porose da decenni di scambi, transiti, interconnessioni di cui ci si è avvantaggiati finché è stato possibile, fingendo che i conti, in fondo, non sarebbero mai stati veramente presentati. Il ricorso a promesse «pirotecniche e psichedeliche» (Carmelo Palma) più che offrirci il grigio resoconto di un sistema politico che non sa quali pesci pigliare per davvero, ci racconta e restituisce semmai l’immagine di una collettività sfiancata e sfiduciata per sempre, con alle spalle almeno trent’anni di ricerca ossessiva di un «nuovo» che non si dà, semplicemente perché non esiste. In questa illusorietà dei molti si inserisce la deriva che da tempo è in corso rispetto alla razionalità logica ed etica come radice e fondamento dell’azione collettiva. Il declino della politica, la sua involuzione demagogica e populista, l’ipertrofia di un’economia finanziaria lasciata a sé, una globalizzazione a sua volta stanca, così come anche il crescente bipolarismo tra democrazie liberali e sociali in affanno e autocrazie in crescita, sono al contempo cause e, in qualche modo, anche effetto, della decadenza e del ripudio del criterio della razionalità scientifica (che è cosa completamente diversa dalle perversioni mostruose che conosciamo sotto il nome di “scientismo”, tragica pantomima della conoscenza). Il problema è sia di autorevolezza che di credibilità, così come di condivisione e di comunicazione, quindi di socializzazione e di fruizione. Ha molto a che fare con il modo in cui si forma quel buon senso che è il collante del giudizio, quando invece certo senso comune assai diffuso sembra esserlo piuttosto del pregiudizio. Metodo scientifico e metodo democratico debbono, per essere davvero tali, condividere una comune piattaforma programmatica e d’azione, che parte dalle sperimentazioni, dalle verifiche, dai confronti in un contesto pluralista, aperto anche ai conflitti di interpretazione, con il fine della costruzione di codici condivisi, di norme consolidate e assodate sulla scorta dell’esperienza e del crescente consenso. Da ciò deriva l’autorità ben fondata, quella che non si impone con il mero atto di forza ma che sa come disporre a favore dell’interesse collettivo, essendo in ciò creduta dai tanti. Quando tutto ciò viene a mancare, si possono aprire dei varchi clamorosi che fanno scivolare la discussione pubblica, già di per sé tanto impetuosa quanto fragile – poiché priva di capacità di auto-riflessione – dentro il buco nero delle credenze fallaci e delle deliberate mistificazioni, delle ataviche superstizioni e dei relativismi compiaciuti. Democrazia e scienza non sono il prodotto di un perenne plebiscito popolare ma la scrematura progressiva di una pluralità di dibattiti, ricerche e verifiche, sulla scorta dei quali si delega la rappresentanza di una società non a delle élite separate ma a delle figure professionali e politiche che ne riescono a raccogliere gli interessi, le domande e i bisogni, trasformandoli in risposte tanto legittime quanto consensuali. Tutto ciò, quindi, nulla ha a che fare con i costanti sbandamenti di umori che invece accompagnano quel diffuso antiscientismo che si presenta oggi come il seducente e mortifero richiamo ad una sorta di contropotere, che per il fatto stesso di mettere in discussione ciò che è conclamato istituirebbe al suo posto una nuova società, basata su una illimitata libertà di (pre)giudizio. «Lo sgretolamento di un principio di razionalità pubblica, che non ha tanto a che fare con il sapere, ma con la responsabilità del pensiero e dell’azione, non a caso oggi presenta, in tutto l’Occidente, il carattere della rivolta contro le istituzioni politiche e scientifiche, accomunate dal sospetto di essere dispositivi di potere occulto e di nascondere nelle regole formali un dominio sostanziale incontrastato, perché non riconosciuto». Certi atteggiamenti di sfida e rivalsa, le diffuse condotte di demenza digitale e comunicativa, la furia del negazionismo (che, come fenomeno sociale, ha da tempo travalicato i confini della storia per incunearsi nel presente, deformandone la percezione dei lineamenti) e molto altro ancora, sono entrati da tempo, a pieno titolo, dentro la politica e la stanno “abitando” e manipolando. Ci sono molte analogie tra le battaglie per la «libertà scientifica» (il rivestimento allucinato dell’irrazionalismo: ognuno sceglie quel che meglio gli pare) e la decadenza di autorevolezza delle istituzioni pubbliche, sempre più spesso indicate non come le depositarie di una sovranità collettiva bensì come ostacoli da piallare, nel nome di un sogno che si fa incubo, quello per cui ognuno basterebbe a se stesso, in una miscela tra feroce individualismo proprietario («padroni in casa nostra», la versione contemporanea della «roba» da accumulare di cui già parlava Giovanni Verga), intercambiabilità degli individui (l’«uno vale uno») e relativismo antiscientifico («questo lo dice lei!»). L’intermediazione è stata fatta brillare, frantumandosi in mille pezzi. E gli individui, che rimangono soli, non possono fare altro che chiedere una qualche forma di protezione, tornando ad intendere la politica come, al medesimo tempo, campo dei soli rapporti di forza (dove vince il più prepotente) e istanza alla quale chiedere non diritti ma favori e concessioni (lo scambio personale di contro alla cittadinanza universale). C’è un lungo trend, non solo in Italia, che si muove secondo questa logica. Da noi, tuttavia, la radicalità di certi processi è maggiormente accentuata. «Se nell’Italia partitocratica il voto di scambio era prendere voti in cambio di cose, che è [il modo in cui] da sempre i sovrani remunerano la fedeltà dei sudditi, nell’Italia antipolitica è prendere voti in cambio di illusioni, che è [il modo in cui] i guaritori coltivano la devozione religiosa dei disperati. Non la compravendita del voto in cambio di pani e di pesci, ma dell’attesa del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci». Il miracolismo di certi personaggi pubblici fa quindi il paio con l’illusorietà di chi li insegue, in un gioco che in questi ultimi lustri non permette più di stabilire neanche dove finisca il raggiro altrui e cominci l’autoinganno, trasformando cinismo e frustrazione in ricerca costante di una qualche forma di allucinazione compensatoria. La cosiddetta «crisi della politica» sta anche dentro questo gigantesco contenitore, una sorta di frullatore italiano ed europeo di malesseri, disagi, demotivazioni, cinismi, sconcerti, marginalità e rabbiosità. Questi ultimi non sono vizi di popoli capricciosi e diseducati ma stigma di un’età dove alla modernità digitale si accompagna la regressione sociale. Con essa, va da sé, anche quella culturale, poiché il peggiore ignorante è colui che, non volendo mai intendere, fa male non solo agli altri ma anche a se stesso. Si tratta quindi di qualcosa di profondo, che ciò che resta dei brandelli della politica si incarica non di rappresentare, mediare e conciliare ma di piegare a proprio beneficio. Anche questo è radicalismo, ma senza radice alcuna.
Claudio Vercelli
(4 agosto 2022)