Periscopio – Le tre fiere

Abbiamo trattato, nelle due scorse puntate, dell’ispirazione che Dante trasse, per l’allegoria delle tre fiere che, nel primo Canto dell’Inferno, gli sbarrano la strada verso il colle illuminato dal sole, dal settimo capitolo del libro di Daniele, nel quale sono indicate quattro bestie che appaiono al profeta in una “visione notturna”. I quattro animali del libro apocalittico (uno simile a un leone, uno simile a un orso, uno simile a un leopardo e un quarto non somigliante a nessuna creatura reale), abbiamo visto, simboleggiano delle potenze terrene che si sono contrapposte al popolo ebraico, non dei peccati umani. Il loro significato, quindi, è storico, politico, non morale.
Per quanto riguarda l’allegoria dantesca, alcuni (tra cui, in particolare, il Foscolo) hanno sostenuto che anch’essa sarebbe da intendere in senso nazionale-politico, in quanto il poeta avrebbe voluto fare riferimento a tre potenze terrene il cui comportamento, ai suoi tempi, sarebbe stato oggetto, da parte del poeta, di forte biasimo: Firenze, la Francia e il papato. Tale interpretazione è da respingere, in quanto contraddirebbe l’impostazione di fondo del poema, che ha una natura essenzialmente morale, non politica. Compito del poeta è quello di stigmatizzare i peccati e i vizi degli uomini (dei singoli uomini), e di esaltarne le virtù, secondo in una visione meta-temporale e meta-spaziale. Ogni premio e ogni punizione attribuita nella Commedia hanno un valore eterno e universale, valgono per tutti i tempi, tutti i luoghi e, certamente, tutti i popoli.
Identificare con il male tre specifiche potenze terrene avrebbe smontato dall’inizio tale visione. E poi Dante è sempre alieno da qualsiasi forma di colpevolizzazione collettiva: del caso particolare della presa di Gerusalemme come “vendetta de la vendetta del peccato antico” (Par. VI. 92-93) abbiamo già parlato, e l’invettiva contro la città di Pisa, di cui, nel XXXIII canto del’Inferno, si auspica la totale distruzione, ha un’evidente funzione paradossale, in quanto volta a stigmatizzare la nequizia di quei pisani che vollero suppliziare, insieme al Conte Ugolino, anche i suoi quattro figli e nipoti, che erano innocenti, oltre che minori.
Dante condannava il papato dei suoi tempi, ma sperava e confidava che quella istituzione divina sarebbe tornata presto a svolgere la sua santa missione, non avrebbe mai identificato la Chiesa, di per sé, come un animale selvaggio. E lo stesso vale per la sua sempre amatissima Firenze, un amore che la malvagità dei suoi corrotti governanti non scalfisce minimamente, anzi, aumenta, sia pure dolorosamente.
Le fiere, dunque, sarebbero degli errori individuali, delle colpe.
È possibile, come è stato spesso sostenuto, che il poeta abbia voluto seguire l’indicazione fornita da Giovanni, nella prima epistola (2. 16), ove si scrive che la conversione dell’uomo sarebbe impedita da tre peccati fondamentali: la “concupiscentia carnis” (ossia la lussuria), la “concupiscentia oculorum” (l’avarizia) e la “superbia vitae”. Riterrei da escludere, invece, l’identificazione, pure proposta, della lonza con l’invidia, giacché tale colpa è espressamente menzionata alla fine del Canto (“là onde ‘nvidia prima dipartilla”: 111), come la forza malefica che avrebbe fatto sfuggire la terza fiera, ossia la lupa, dall’Inferno. L’invidia, per Dante, non è un peccato come gli altri, ma è la prima origine di tutti i mali, il “peccato dei peccati”. E chiunque abbia raggiunto l’età della ragione sa che è vero.
Le tre fiere, dunque, potrebbero indicare lussuria, avarizia e superbia. Riterrei, però, questa identificazione riduttiva. Dante avrebbe potuto facilmente rendere evidente il collegamento della sua allegoria all’epistola giovannea, se non l’ha fatto ha avuto le sue ragioni. E la fonte della sua raffigurazione, come abbiamo visto, non è la lettera di Giovanni, bensì il settimo capitolo di Daniele, dal quale il poeta trae l’idea dei tre animali paurosi. Ma il significato degli stessi, diversamente dal libro apocalittico, non è oggettivo, ma soggettivo, in quanto ogni uomo ha davanti a sé, o dentro di sé, le fiere. Esse rappresentano tre peccati, ma forse, più generalmente, tre malattie, tre “buchi neri” dell’animo umano. Quali?
Se la “selva oscura”, nel suo complesso, rappresentava il peccato, non appare molto convincente l’idea che siano, di nuovo, tre specifici peccati a impedire l’uscita dalla stessa. Ma va ricordato, soprattutto, che la forza principale della Commedia è la sua assoluta universalità ed eternità valoriale. Dante è un uomo medievale, ma è anche un nostro contemporaneo. Oggi pochi vedrebbero nella selva oscura il peccato, ma non c’è nessun uomo che non lotti per uscire dalla sua personale selva, anche se ad essa si danno oggi nomi diversi: depressione, nichilismo, insignificanza, o (per usare l’espressione di Montale, profondo conoscitore e amante di Dante) “mal di vivere”. Tutti cerchiamo la strada per uscirne, ma la troviamo sbarrata dalle tre fiere. Esse possono avere un significato morale, certo, ma anche uno mentale, psicologico. E siccome non esistono due psicologie uguali, ogni singolo uomo deve lottare contro i suoi personali avversari.
Oggi non sono più, credo, lussuria, avarizia e superbia, che possono essere considerati mali, per molti versi, inattuali. Per quel che vale il mio pensiero, io riconosco, nelle prime due fiere, nel momento in cui scrivo, la viltà e la paura. Quanto alla lupa, il poeta ci dà degli elementi in più, perché ci dice che non è mai sazia (97-98), che si accoppia a molti altri animali (100) e che sarà sconfitta dal “veltro”, che la ricaccerà nell’inferno, da dove l’invidia la fece uscire (101-111). La lupa, quindi, è figlia dell’invidia, il “peccato dei peccati”.
Oggi penso che questo figlio dell’invidia sia l’odio. Domani, chi sa.

Francesco Lucrezi