Realtà virtuale e Memoria virtuosa

Si avvicinano nuovamente le solennità ebraiche fondate su quell’inestricabile intreccio tra storia e memoria che nei secoli ha alimentato la cultura ebraica. Quasi tutte le festività ebraiche, oltre al collegamento con le fasi agricole e stagionali, intendono trasmettere alle nuove generazioni il ricordo di avvenimenti drammatici e fondativi, empaticamente vissuti come storici.
Il tema dell’analisi storica, ma anche dell’elaborazione della memoria, è stato altrettanto intensamente dibattuto riguardo alle testimonianze sulla Shoah e ci si è a lungo domandati, ci si continua anzi ad interrogare, su che cosa potrà avvenire dopo la scomparsa dell’ultimo testimone.
Una amplissima documentazione esiste ormai sugli eventi tragici della II Guerra Mondiale e dello sterminio di massa perpetrato dai nazisti e dai loro collaboratori; le opere di analisi storica, di memorialistica e di narrativa a sfondo storico continuano a moltiplicarsi; cinema di finzione e film documentari annoverano ormai una vastissima produzione; ma accanto ad essi, anche le registrazioni audiovisive di testimonianze dei sopravvissuti, grazie soprattutto al progetto della Shoah Foundation, ideato da Spielberg. Ultimamente, l’archivio che custodisce le registrazioni di tali testimonianze ha ampliato gli obiettivi di partenza, includendo anche testimonianze del genocidio armeno, di quello dei Tutsi in Rwanda, e dei massacri di Nanchino nella guerra Cino-giapponese.
E tuttavia, come sostituire la testimonianza diretta, in presenza, faccia a faccia di quelle persone che con passione e devozione, si sono prestate per anni a parlare, ad esporre le proprie ferite fisiche ed emotive, scavando con sofferenza e dolcezza al tempo stesso nel proprio traumatico passato, per parlare alle scolaresche, ad ascoltatori giovani e meno giovani di quanto patito in prima persona durante gli anni tragici della Shoah?
Alle prese per anni con questo assillante interrogativo Heather Maio, curatrice di mostre esperienziali, specializzata in tecnologie avanzate e intelligenza artificiale, e Stepen Smith, ora direttore emerito della Shoah Foundation, hanno ritenuto di trovare una soluzione grazie agli ultimi ritrovati tecnologici.
Dimensions in Testimony
A partire dal 2012 il progetto Dimensions in Testimony della Shoah Foundation in collaborazione con L’Istituto per le Tecnologie Creative dell’Università della California meridionale ha implementato almeno una ventina di interviste filmate con superstiti della Shoah, ottantenni o novantenni. Tra i partecipanti al progetto si annovera anche Eva Schloss, salvatasi da Auschwitz a 16 anni con sua madre, che più tardi sposò Otto Frank, padre di Anne.
Non si tratta però di semplici video. Gli intervistati si sono accomodati in una poltrona davanti ad uno schermo di un verde molto brillante, al centro di una grande sfera, quella che gli specialisti chiamano cupola geodetica. Questa struttura emisferica costituita di assi che si intersecano formando tanti triangoli, è costellata di centinaia di riflettori LED che, posti ai vertici dei triangoli, illuminano dall’alto la scena, e di oltre un centinaio di videocamere, capaci di filmare l’intervistato da molteplici punti di osservazione. Agli intervistati sono state rivolte fino a 2000 domande, elaborate consultando esperti, giornalisti, studenti. La maggior parte dei sopravvissuti intervistati, previ colloqui con i familiari, autorizzazioni e familiarizzazione con il personale adibito all’organizzazione delle riprese, si è sottoposta al fuoco di fila delle domande nel corso di cinque giorni, seguendo – salvo le dovute pause – un vero e proprio orario di lavoro dalle 9 alle 17. I filmati, ad altissima definizione vengono poi proiettati creando una specie di ologramma tridimensionale dell’intervistato. In alcuni musei degli Stati Uniti sono state allestite delle autentiche sale di teatro, in cui il pubblico può sedersi nella zona riservata agli spettatori, mentre l’immagine dell’intervistato viene proiettata a grandezza naturale sul palcoscenico, offrendo agli spettatori la sensazione di una sua reale presenza sul luogo, senza bisogno di visori stereoscopici. Ma la cosa più sorprendente è data dal fatto che gli spettatori presenti non si limiteranno a svolgere un ruolo passivo da ascoltatori. Essi potranno rivolgere le domande che riterranno più opportune al sopravvissuto virtuale ed un sofisticato software, in grado di riconoscere le espressioni verbali emesse in natura, abbinerà a quelle domande le risposte tratte dal contingente delle dichiarazioni preregistrate dell’intervistato. Molti ragazzi, giornalisti e visitatori di musei hanno già sperimentato l’incontro interattivo con queste figure materializzatesi davanti ai loro occhi ed in un certo senso, il fatto che si trattasse di realtà virtuali ha incoraggiato i presenti a rivolgere loro domande che l’idea di porre ai sopravvissuti in carne ed ossa avrebbe ostacolato, perché avvertite magari come troppo indiscrete o intrusive, in considerazione della fragilità del personaggio reale.
Proiezioni del passato nel futuro
La ricerca della Shoah Foundation, ma anche il parallelo progetto intitolato Forever Project sviluppato al National Holocaust Centre and Museum di Laxton, nel Nottinghamshire in Inghilterra, che utilizza altri sistemi tecnologici, ma con analoghi risultati, si ripropongono di informare e istruire le giovani generazioni rendendo le testimonianze di vita dei sopravvissuti meglio accessibili e più interessanti rispetto a quanto le registrazioni audiovisive hanno potuto ottenere fino ad ora. E naturalmente, tutti questi tentativi, che hanno richiesto un serio impegno di ricerca e di specializzazione in campo tecnologico, una vasta collaborazione interdisciplinare oltre a cospicui finanziamenti, si sono sviluppati in risposta ad una richiesta urgente ed impellente: non restava infatti a disposizione molto tempo per cogliere ancora in vita e in condizioni di salute fisica e mentale sostenibili gli ultimi testimoni.
Gli incontri verificatisi finora tra i giovani allievi di scuole primarie e secondarie e gli “avatar” degli anziani sopravvissuti si sono rivelati molto soddisfacenti, hanno destato l’interesse e l’entusiasmo dei ragazzi che si sono dimostrati attenti, sensibili, emotivamente coinvolti e pronti a rivolgere sempre nuove domande ai loro interlocutori. La consistenza volumetrica delle figure sul palco e il contatto visivo sono apparsi molto vivi e quasi naturali a chi li abbia sperimentati, e, pur coscienti del ruolo del software di riconoscimento linguistico nella scelta degli spezzoni tratti dall’assortimento delle registrazioni, o degli occasionali congelamenti verificatisi nelle proiezioni, il pubblico ha avuto l’impressione di una reale interazione in presenza. Nei sondaggi di vari gruppi di controllo, il livello di empatia sviluppato nei confronti dei sopravvissuti virtuali non è apparso diverso rispetto a chi abbia conversato con i sopravvissuti in carne ed ossa ed in generale non si è posta in dubbio l’autenticità delle persone intervistate o delle storie di vita da loro raccontate. I sopravvissuti virtuali gesticolano, rivolgono il viso e lo sguardo verso coloro che li interpellano e paiono veramente ascoltare, ponderare le loro risposte e guardare negli occhi i presenti. A volte chiedono di riformulare la domanda o la rielaborano loro stessi per chiarire se fosse stato effettivamente quello l’oggetto di interesse dell’intervistatore. Si dichiarano incerti della loro risposta o impossibilitati a rispondere qualora venga loro rivolta una domanda cui effettivamente non possano rispondere, magari perché riferita ad un tempo successivo a quello della loro vita. Alcuni neuroscienziati sostengono che la prossimità offerta dall’incontro con realtà virtuali sortisca un impatto molto profondo con effetti trasformativi di lunga durata per il nostro inconscio.
Valutazioni scettiche
Ciò non toglie che operazioni di questo tipo abbiano sollevato dubbi e critiche nel corso di una riflessione sui loro esiti e i possibili sviluppi futuri. Si è temuta una “disneyficazione” delle testimonianze ed eventualmente una banalizzazione dei tragici eventi storici testimoniati, a causa dell’utilizzo di mezzi che sono abitualmente associati al mondo dell’intrattenimento ludico o spettacolare o addirittura della fruizione erotica. C’è però da considerare il fatto che il ricorso alla realtà virtuale, che in passato era considerata un portento incredibile e straordinario, sarà sempre più praticato e familiare per i fruitori degli anni a venire, causando quindi la perdita di quell’aura di eccezionalità che poteva indurre inizialmente a ritenere tali realizzazioni paragonabili a fenomeni da baraccone, o comunque ad associarli soltanto a film di fantascienza o ai mirabolanti effetti speciali di certa cinematografia hollywoodiana contemporanea. Ultimamente la realtà virtuale è venuta in aiuto anche della chirurgia a distanza. E diventerà probabilmente un dato acquisito la facoltà di esercitare interazioni e dialoghi con persone che non ci sono più o che si trovano altrove, attraverso i loro sostituti virtuali. In questo senso si stanno muovendo ad esempio organizzazioni come StoryFile che adottano simili metodi di ricorso a intelligenze artificiali e di registrazione tridimensionale, per preservare storie di famiglia per le future generazioni, o anche soltanto memorie di familiari, attraverso applicazioni interattive che offrano la sensazione di conversazioni in tempo reale.
Perplessità etiche
I dubbi sollevati sul piano etico sono stati variamente affrontati e – dal punto di vista degli organizzatori e dei tecnici – tenuti in considerazione, se non totalmente superati, con sufficiente serenità di coscienza. È corretto rendere il senso di una vita attraverso una serie di domande scollegate o è questo un modo di abusare della disponibilità dei sopravvissuti? Si rende giustizia alla loro testimonianza considerando che magari le domande che effettivamente vengono loro poste non sono quelle che stanno loro più a cuore? E ancora, si riesce a dare contezza della complessa realtà storica passata se le domande dei giovani studenti vertono piuttosto sul vissuto personale ed emotivo dei superstiti? Si sta manipolando il discorso, il messaggio, o addirittura la personalità degli intervistati affidando agli algoritmi la possibilità di associare le loro risposte ai quesiti di volta in volta rivolti loro o delegando ai vari software la gestione dei movimenti e dei gesti fotografati durante le interviste? La risposta a queste incertezze è stata in genere negativa: quello che i sopravvissuti affermano nelle loro comparse simulate sono effettivamente le loro parole e le reazioni da loro manifestate. A volte si può ricevere l’impressione che la risposta offerta dalla figura virtuale non corrisponda esattamente alla domanda. Tuttavia, il software non inserisce mai dei contenuti non originali; le risposte sono sempre e soltanto quelle offerte dai protagonisti nel corso dell’intervista. Chi ha assistito più volte ai colloqui interattivi con il personaggio preregistrato non si è d’altra parte annoiato: le risposte a domande simili sono variate, perché ampio era l’assortimento cui attingere per il software che abbina le risposte grazie agli algoritmi di riconoscimento del discorso, ed ogni volta è stato come assistere ad un’esperienza diversa in cui nulla era scontato. Con il passare del tempo, con l’evoluzione della ricerca tecnologica e con una più frequente esposizione del software ai contenuti interattivi, l’intelligenza del sistema si espanderà, comprenderà meglio le nuove domande, grazie ad un più esteso allenamento e vi farà meglio corrispondere le risposte, senza mai aggiungere nulla di esterno a quanto registrato. Si tratta di un motore di ricerca intelligente ma non di un congegno capace di pensare in maniera indipendente.
Queste rappresentazioni virtuali e le loro interazioni restituiscono fedelmente il personaggio originario, non rischiano di darne un’immagine deformata perché fuori contesto? Molto dipende dal rigore degli organizzatori e della squadra di lavoro responsabile per la resa delle figure proiettate tratte dai filmati. Nel caso della Shoah Foundation o dei musei statunitensi e britannici dell’Olocausto si può essere certi dell’impegno educativo, civile e storico che ha indotto tali istituzioni a dar vita ai loro progetti e a corredare le mostre che accompagnano i filmati di adeguati contesti esplicativi. Certamente, una volta che queste tecniche diventino accessibili al largo pubblico o si svincolino dalla supervisione delle istituzioni più serie ad esse preposte, potrebbe essere molto facile travisare e manipolare eventuali riproduzioni filmate.
Obsolescenza
Vi è inoltre la questione dell’obsolescenza della tecnologia. Se è vero che finora i progressi dei vari software impiegati per quest’impresa hanno raggiunto risultati sempre più soddisfacenti nella realizzazione delle proiezioni tridimensionali e del riconoscimento del linguaggio, è innegabile che col tempo gli strumenti tecnologici utilizzati invecchieranno e la resa dei contenuti apparirà obsoleta o incompatibile con nuove piattaforme e sistemi di software. Non possiamo d’altra parte sapere come gli stessi fruitori di generazioni future saranno in grado di comprendere espressioni verbali o contenuti storici tanto lontani dai loro. Inoltre, una volta svanita la novità degli espedienti tecnologici d’avanguardia, si manterrà l’interesse per le storie e le biografie raccontate? Sopravviveranno all’usura del tempo e dei ritrovati tecnologici le personificazioni prive di corpo dei sopravvissuti?
Interattività e immersione totale
È evidente però che la tendenza e la ricerca dei musei storici e in particolare dei musei con intenti educativi, volti a trasmettere la memoria e la testimonianza degli avvenimenti e del vissuto della Shoah, sono indirizzati ad un sempre maggior coinvolgimento sensorio, visivo, tattile dei più giovani visitatori. Non basta osservare dei filmati o vedere esposti oggetti e documenti in una bacheca corredata di didascalie esplicative. Non è sufficiente digitalizzare le migliaia di riproduzioni audiovisive e fotografiche per renderle più accessibili al largo pubblico. Difficilmente un utente ordinario andrebbe a spulciare fra il materiale disponibile o ricercherebbe tra le interviste, lunghe circa un paio d’ore, i dati che lo interessano.
I sondaggi e le analisi dei metodi più innovativi sperimentati nei musei hanno mostrato risultati molto positivi e favorevoli ai metodi immersivi, in cui il giovane pubblico venga trasportato in una dimensione virtuale e possa provare la sensazione di vivere in prima persona nei luoghi storici teatro degli avvenimenti, così da eliminare la distanza che lo separa da un mondo cronologicamente remoto e difficile da comprendere.
Gli incontri interattivi con i sopravvissuti virtuali (sia pure con tutte le riserve appena menzionate) sono la next best thing rispetto a quelli con i testimoni in carne d’ossa, purtroppo inevitabilmente in via di sparizione.
Altri importanti esperimenti sono stati elaborati negli ultimi anni che favoriscono forme di realtà virtuale immersiva. A qualcuno potranno venire in mente le più recenti mostre itineranti di opere di Van Gogh o Leonardo. Ma forse l’esempio più calzante ma anche più controverso è quello dei videogiochi. Il Museo dell’Olocausto dell’Illinois a Skokie, consente ai visitatori di usare un visore stereoscopico per accedere all’esperienza del sopravvissuto George Brent, che nel 1944 scese terrorizzato all’età di quindici anni dal vagone che l’aveva condotto ad Auschwitz-Birkenau. L’uomo, ormai ultranovantenne, è stato filmato di fronte ad uno schermo verde essendo troppo in là con gli anni per affrontare il viaggio in Germania. Ma i visitatori saranno in grado di osservarlo mentre egli appare nei luoghi del distacco dalla sua famiglia e del lavoro forzato nelle miniere austriache di Ebensee e saranno essi stessi trasportati in quei luoghi grazie ad avanzate tecnologie che consentiranno loro di vivere quell’esperienza in prima persona controllando la loro visita a 360 gradi. Questa visita virtuale di circa 12 minuti è stata intitolata “Don’t Forget Me” ed è parte della mostra “The Journey Back: A VR Experience”.
Altra importante realizzazione è il film in 3D presentato al Tribeca Film Festival e alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia nel 2017: The Last Goodbye. Protagonista ne è il primo intervistato da Dimensions in Testimony nel 2012: Pinchas Gutter. Vissuto da bambino nel Ghetto di Varsavia alla cui rivolta prese parte, e trasferito poi in ben 6 diversi campi di concentramento e di sterminio, Gutter ha intrapreso nel 2018 quello che ha chiamato il suo ultimo viaggio a Majdanek, il campo di sterminio operante durante l’occupazione tedesca della Polonia, l’ultimo cui Gutter sopravvisse da prigioniero. A differenza che nelle proiezioni realizzate da Dimensions in Testimony, non si è reso necessario il software di elaborazione del linguaggio e di riconoscimento delle espressioni verbali, bensì un sofisticatissimo lavoro di artisti e ingegneri che attraverso migliaia di riprese cinematografiche e fotogrammi hanno mostrato Gutter nei luoghi del suo tormento, e accanto alle camere a gas e al crematorio in cui non si è sentito di entrare, in memoria della sua famiglia che lì venne sterminata. Con l’aiuto di un visore e a piedi scalzi, gli spettatori del film, della durata di 17 minuti, possono accompagnare Gutter nella sua visita in un ambiente tridimensionale a grandezza naturale, grazie ad una simulazione multisensoriale che reagisce agli spostamenti degli utenti-spettatori in tempo reale.
Possiamo mantenere il nostro scetticismo, scuotere o voltare la testa dall’altra parte con un moto di disapprovazione, individuare i difetti e i punti deboli di siffatte operazioni. Non siamo d’altronde sicuri di quanto o di come passeranno la prova del tempo o se lo faranno nel modo corretto. Innegabile è tuttavia l’impegno di quanti si sono ingegnati di trovare una soluzione pratica allo scottante problema dello scorrere inesorabile del tempo che toglierà di torno fino all’ultimo testimone vivente della Shoah. Lo hanno fatto con ogni mezzo disponibile e anche cimentandosi nella creazione di strumenti innovativi, prima inesistenti. Al loro impegno si è unito quello indispensabile ed entusiasta dei sopravvissuti partecipanti al progetto, che hanno dimostrato ancora una volta, incuranti dell’età e delle difficoltà fisiche, la loro vitalità, la propria fiducia nel futuro, la loro speranza nella comprensione e nelle buone intenzioni delle generazioni presenti e future, cui affidare la propria straordinaria esperienza di vita. Se non potranno essere immortali, avranno fatto comunque il possibile per non cadere nell’oblio.
Annalisa Di Nola
(Nelle immagini: il progetto Dimensions in Testimony della Shoah Foundation)
(8 settembre 2022)