Accidia e risacca
Sono francamente poco credibili quei ripetuti richiami alle prossime elezioni laddove queste sono descritte come una sorta di redde rationem, un bivio tra democrazia e autocrazia. Alle porte del nostro Paese non ci sono le camicie nere e ancora meno quelle rosse (che poi, nella nostra tradizione nazionale, risponderebbero perlopiù al ricordo del garibaldinismo). Semmai, al posto dell’ordalia entrano in gioco altri fattori, assi più concreti e prosaici. Il primo di essi è l’estrema povertà di programmi e progetti, al netto delle invece numerose promesse. Nessuno ha un’idea plausibile sul da farsi. Soprattutto, parrebbe che le dichiarazioni dei diversi esponenti politici più che assumere impegni concreti (e come tali effettivamente praticabili, quindi piattaforme sulle quali misurare la credibilità delle affermazioni di principio) ondeggino tra il rimando all’irrealizzabile e il richiamo all’evocazione. Nel primo caso si produce una sequela di dichiarazioni chiaramente ispirate al fantasioso, per le quali molti già sanno che nulla si potrà concretamente fare. Nel secondo caso, si dà corso ad una specie di rimando ad ipotesi che dicono e non dicono, affermano ma – al medesimo tempo – possono essere smentite, senza che ciò procuri troppo danno per chi lo fa. Qualcuno ha definito questo stato di cose come «populismo da fischietto»: al pari del richiamo esercitato dallo strumento ad aria, facilmente portabile con sé e quindi utilizzabile, il suono che viene emesso produce in chi lo ascolta un’immediata reazione di attenzione. L’elettore viene in tale modo trattato come una specie di soggetto pavloviano, che risponde irriflessivamente ad un semplice stimolo. Si ha quindi la netta impressione che nessuno sappia come affrontare le agende economiche e sociali, diventate un intrico ai limiti del garbuglio irrisolvibile. Le vere sabbie mobili nel nostro Paese sono non il perdurare degli spettri di ideologie trascorse bensì il declino della politica, ossia la sua dissociazione dalla rappresentanza democratica. Nel primo caso il politico agisce da sé e per sé, senza l’obbligo di un reale riscontro (che non sia quello di un passaggio elettorale vissuto senza nessuna convinzione); nel secondo, la crisi di fiducia collettiva, che ora si sta trasformando in crescente diffidenza anche nei confronti del sistema istituzionale, aliena il voto da qualsiasi speranza. Le retoriche del voto utile, della diga contro l’erompere delle forze antidemocratiche ma anche il rimando ad un nuovo mondo che, grazie al verdetto delle urne, dovrebbe aprirsi da sé, quasi come d’incanto, segnalano l’evidente affaticamento delle democrazie, oltre che delle forze politiche che operano in esse. Il populismo, un termine che abbiamo spesso utilizzato anche in queste pagine, è la sintesi di un tale stato di cose. Il confronto democratico, infatti, ribaltandosi nel suo opposto, si trasforma in uno strumento di passivizzazione collettiva, consolidando quella radicale spoliticizzazione che separa per sempre i cittadini dalle istituzioni. In un tale quadro, come è stato scritto: «il populismo fa il contrario di quel che promette: non restituisce al popolo il pieno controllo del potere, ma trasferisce al potere un controllo assoluto del popolo, proprio perché l’uomo-massa, sottoposto a una radicale spersonalizzazione politica e la cui massima espressione democratica è la manifestazione di emozioni elementari – la rabbia, la paura, il dolore – e la rivendicazione di diritti e benefici octroyée [concessi dall’alto], rappresenta il suddito perfetto e perfettamente manovrabile, alienato com’è dalla consapevolezza e dalla responsabilità richiesta al cittadino e dagli oneri della partecipazione politica, che non è doglianza o richiesta rivolta al sovrano, ma assunzione di oneri, impegni e rischi di errore e di fallimento». Imboccando questa traiettoria si fa più di un passo indietro: dalla rivendicazione dei diritti collettivi si torna alla richiesta di vantaggi privati e protezioni individuali; alla redistribuzione delle risorse si sostituisce il ricorso alle elemosine, mascherate per ristori; la legittima e ragionevole speranza di andare avanti è rimpiazzata dall’angoscia di non essere troppo retrocessi. Gli autocrati di ogni risma, così come gli imprenditori politici che campano sulla paura (altrui) sanno bene quanto questi strumenti possano essere dirompenti e condizionanti. Ancora quel qualcuno di cui prima ha scritto, con dure parole, che «questo processo, che è da decenni il cuore della crisi politica italiana, avendo trasformato l’elettorato attivo in accattonaggio e quello passivo in baratteria, è divenuto così connaturato al funzionamento della nostra democrazia – e la generalità degli italiani è così programmata ad adeguarvisi – che nel suo sistema di scambio i corrispettivi pretesi e concessi sono sempre meno materiali e sempre più simbolici e hanno sempre meno a che fare con quello che gli elettori possono mettere in tasca e sempre di più con quello che possono ottenere per sentirsi riconosciuti nelle loro passioni tristi: l’odio, l’invidia, la malevolenza. Più che avere un guadagno, vogliono avere semplicemente soddisfazione». Anche per questo la campagna elettorale, registrando ancora una volta lo scoramento e lo spiazzamento collettivi, si è spesa tra inverosimili rassicurazioni e malevoli attacchi personali. In politica le une e gli altri possono anche starci ma se sostituiscono il vuoto, occupandone interamente lo spazio con un falso “pieno” di parole, allora sono solo ed unicamente illusioni. Per l’appunto, allora, va ricordato ancora una volta che: «l’allarme per il ritorno del fascismo o per l’arrivo del comunismo è anacronistico, ma questo non significa affatto che nell’emergenza democratica rappresentata dall’egemonia culturale e spirituale del populismo non esista un rischio autoritario, che è appunto implicito nella degradazione del cittadino a suddito e del popolo a gente, e nel disprezzo del principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri pubblici come garanzia delle libertà individuali». D’altro canto, al riscontro dei fatti tutte le democrazie populiste hanno una chiara venatura illiberale, trovando il loro punto di equilibrio su una visione organicista e totalitaria della cosiddetta «volontà generale», dietro la quale si possono celare molte cose, alcuni delle quali assai poco rispettose non solo delle libertà e dei diritti individuali ma anche di elementari principi di giustizia sociale. E non ci si illuda, facendo la conta delle posizioni, sulla maggiore (o minore) accettabilità di certi candidati e di alcune formazioni, quando si parla del magma populistico: atlantismo, europeismo, filosemitismo, solo per citate alcune delle tante declinazioni possibili, sono assolutamente intercambiabili con il loro reciproco inverso, ossia il putinismo, il sovranismo, il complottismo. Il tutto, va da sé, in base alle esigenze del momento. Poiché relativismo, reversibilità, opportunismo e intercambiabilità sono facce del prisma nazionalpopulista, a destra come a sinistra. Non è un problema solo italiano, è un fenomeno corale, che ci dice che da tempo siamo entrati in una nuova epoca, fatta anche di disillusioni e disincanti, ai quali può accompagnarsi la risacca della democrazia.
Claudio Vercelli