Il dovere di cambiare

Dopo 25 anni di magistero a Bologna, lo scorso Shabbat è iniziato il nuovo incarico del rav Alberto Sermoneta quale rabbino capo di Venezia. Pubblichiamo di seguito il suo primo messaggio agli iscritti:

“We-shofar gadol ittakà ve-kol demamà dakkà ishamà – Ed il grande shofar verrà suonato e una voce sottile verrà ascoltata” (da Untannè Tokef)
Ci sono dei momenti nella vita dell’uomo in cui persino la lingua più ricca e le espressioni più nobili non hanno la forza di descrivere le sensazioni che si provano. Si racconta nella mishnà di Jomà – trattato in cui si descrive la cerimonia che il Sommo Sacerdote svolgeva nel Tempio di Gerusalemme durante il giorno di Kippur – che durante il lasso di tempo in cui si trovava nel Kodesh ha kodashim, egli non pronunciava né una parola, né una sillaba, né la più piccola espressione vocale. Ogni tipo di manifestazione sia verbale che fisica era superflua per esternare le sensazioni che il Sommo Sacerdote provava in quel momento, in quel luogo: tanto erano forti. Soltanto una tefillà kezzerà, una piccola preghiera, egli pronunciava dopo esserne uscito in pace e in bene, da quel Luogo considerato sacro per eccellenza dal nostro popolo. La stessa cosa vale per noi oggi, quando ci troviamo ad ascoltare il suono dello shofar il giorno di Rosh haShanah. Nessuna espressione riuscirebbe a far capire le sensazioni interiori che noi proviamo nell’ascoltare quel suono magico.
Questo grande insegnamento dei nostri Maestri deve farci riflettere sul nostro operato, ogni giorno della vita, ma soprattutto in questi giorni così vicini a quello che è chiamato jom ha din – il giorno del giudizio, il giorno in cui il Signore D-o prepara il Suo verdetto nei nostri confronti. La consuetudine dell’uomo è quella di manifestare sensazioni verso il prossimo, senza badare troppo né alla forma, né alla possibilità di arrecargli danno, morale o fisico. Sarebbe in questo caso, molto meglio, la riflessione e il silenzio, cercando di trovare, nell’atteggiamento del prossimo, qualcosa di positivo, in ciò che a noi sembra sbagliato.
Cari amici, l’anno che sta per iniziare vede un forte cambiamento: dopo essere stato la guida di una Comunità per venticinque anni, mi trovo a iniziare una nuova esperienza: quella di essere il vostro rabbino; una Comunità molto più grande, ma soprattutto con tradizioni antiche e che, ancora oggi, sono vive e in uso presso di essa. Essere rabbino capo di una comunità ebraica significa essere sempre pronto ad ascoltare i suoi figli e, soprattutto, capirne le esigenze, cercando di comportarsi per tutti allo stesso modo. Si racconta nel libro di Shemot che nel momento in cui Moshè si trovava sul Monte Sinai per ricevere le luchot ha berit – le Tavole della Legge, e il popolo iniziò a prostrarsi, idolatrando il vitello d’oro, il Signore disse a lui: “lekh red ki shichet ‘ammekhà – Va’, scendi, poiché il tuo popolo ha peccato”. Alcuni commentatori interpretano l’imperativo divino “lekh red” dicendo “Va’, alzati dal tuo trono e scendi a confrontarti con loro!” Un rav non deve starsene seduto soltanto sul suo trono, ma deve scendere e parlare uno ad uno con gli appartenenti alla sua Comunità.
Naturalmente, anche la Comunità deve sentire e percepire che ciò che il rav sta facendo e che il suo modo di agire non è altro che per il bene della sua Comunità. Egli deve esserne la guida: il morè! Colui che ha il dovere di illuminare la strada da percorrere, usando l’unico faro possibile: la Torah. Il rav deve scendere in campo davanti ai suoi. Come un generale nell’esercito israeliano, non starsene nella stanza dei bottoni, ma camminare davanti all’esercito. Così il rav deve camminare davanti alla Comunità, stando sempre in prima linea.
Vi chiedo quindi, ma avremo modo di conoscerci e confrontarci, di collaborare con il massimo della franchezza, della trasparenza e, soprattutto, con il rispetto reciproco che è il cardine di un rapporto sano. Cercheremo di lavorare – tutti insieme – per il bene della Comunità veneziana ma soprattutto per il bene dell’ebraismo italiano che, pur essendo una minoranza nella minoranza, non deve mai affievolirsi ma ha l’obbligo morale e sacrosanto di essere l’esempio da seguire per la società civile e il fiore all’occhiello dell’ebraismo mondiale.
Secondo un’interpretazione di un grande Maestro dell’ebraismo, il Maharal di Praga, il termine Shanah deriverebbe dal verbo le- shannot – cambiare. Ogni anno che inizia noi ebrei abbiamo il dovere di cambiare, migliorando di poco ma sempre di più il nostro comportamento. Per me il cambiamento è già iniziato e prego fortemente l’Eterno che esso possa essere positivo per me, ma soprattutto per tutti voi. Per quanto riguarda voi, chiedo di essermi quanto più possibile vicini e di aiutarmi a svolgere questa sacra missione, in nome dell’ebraismo tutto. Possa il Signore accogliere le mie e le vostre preghiere, vederci uniti in questi giorni di sacra festività e farci gioire della presenza delle nostre famiglie nel vederle riunite nei batté ha keneset, come fossimo un’unica persona, amén.

Rav Alberto Sermoneta, rabbino capo di Bologna

(13 settembre 2022)