La sfida del rinnovamento
Chissà se il rinnovamento, tema della Giornata della Cultura Ebraica di quest’anno, è davvero un tema o non sia piuttosto una necessità inderogabile, implicita e necessaria nell’esistenza di chiunque di noi.
E chissà se il rinnovamento non sia un falso mito, viste le incognite che esso nasconde dietro l’angolo.
Il rinnovamento non è necessariamente un progresso e un miglioramento. Può essere peggioramento, regressione e degrado. E non dipende soltanto dalle situazioni o dal caso, dipende anche dalla prospettiva da cui lo si guarda. Che cosa si consideri rinnovamento è il risultato di un giudizio soggettivo. Su che cosa sia rinnovamento ci si può confrontare, affrontare e scontrare.
Abramo esce da Ur e si avvia alla Terra Promessa. Abramo lascia il suo spazio vitale, abbandona gli dei pagani, lascia la casa di suo padre, e inizia una nuova vita. Rinasce, va verso un nuovo destino.
Certamente quello di Abramo è rinnovamento. Ma è rinnovamento anche quello proposto dal Nuovo Testamento, che per niente si chiama ‘Nuovo’! Ma quello che il cristianesimo considera rinnovamento, per l’ebraismo è deformazione e devianza. Ciò che per l’uno è positivo per l’altro non lo è, e viceversa.
Il rinnovamento è questione di punti di vista: ciò che uno considera rinnovamento, per altri può essere deterioramento.
C’è tuttavia anche un altro genere di rinnovamento. È rinnovamento anche quello che si verifica fra Dio e il popolo ebraico quando, in seguito all’adorazione del vitello d’oro e la rottura delle Tavole della Legge, si rinnova il patto. Il nuovo patto non è in effetti nuovo, è invece la riconferma di un patto che era scaduto, o si era annullato, o era andato in crisi. Si rinnova il patto come si rinnova un contratto che è già stato siglato, come si rinnova la fiducia che già è stata accordata.
A ogni Pesach, e a ogni Shavu’oth noi rinnoviamo il patto con Dio, o, se vogliamo, il nostro patto con l’ebraismo.
Ma, ammettendo che rinnovare significhi portare qualcosa di nuovo, aspirare a qualcosa di nuovo, che cosa dobbiamo rinnovare del nostro ebraismo? Un interrogativo pericoloso, perché la risposta può prendere più strade. Qualcuno dirà che dobbiamo diventare più osservanti delle mitzwoth, perché nell’ebraismo bisogna sempre crescere, e quindi si potrà finire per scrutare i minuscoli insetti che possono annidarsi nelle fragole o nel cavolo o nei carciofi. Ma ci potrà anche essere chi afferma l’esatto opposto, ossia che bisogna sfrondare, semplificare, laicizzare, modernizzare l’ebraismo.
A ognuno la sua scelta, ma non si tratta di rinnovare, allora, si tratta di modificare la propria adesione, a una ortodossia più ortodossa o a un ebraismo più flessibile, più permissivo.
In questi termini l’ebraismo italiano si è rinnovato. C’è chi ha preso la prima strada, chi la seconda. L’ebraismo si è rinnovato, ma non ha risolto i propri problemi. Ha semplicemente cercato di adattare le proprie soluzioni alle proprie esigenze. Forse senza riflettere sulla meta da raggiungere.
Almeno Abramo sapeva che doveva dirigersi verso Chenaan. Noi non abbiamo chiaro di dove ci si debba dirigere, di quale sia la nostra Chenaan.
La sensazione è che le nostre comunità vivano alla giornata. Qualcuno dice, in attesa di un’estinzione non lontana.
Ciò che credo si debba rinnovare è la fiducia in ciò che siamo e nel modo in cui affrontiamo ciò che siamo. Per molti di noi il rinnovamento è, paradossalmente, la tradizione, e rinnovamento è per molti di noi lo sforzo di rimanere saldamente ancorati alla nostra tradizione, di non spostarci da dove ci si trova. Eppure nessuno pretende di starsene fermo sull’argine a guardare l’acqua che scorre. Per rimanere uguali a sé stessi ci si deve muovere. Per non spostarsi bisogna faticare e operare, perché è come se si stesse con i piedi piantati in mezzo al fiume e una corrente impetuosa minacciasse di farci perdere l’equilibrio per trasportarci via con lei. La nostra vita quotidiana è resistenza di fronte a questa corrente. Ed è già qui, nella nostra resistenza, il nostro rinnovamento quotidiano, rinnovamento del nostro patto con l’ebraismo.
I temi del nostro rinnovamento, in mezzo a quel guado e di fronte alla corrente, sono molti. Ne citerò soltanto alcuni.
C’è il tema che dibattiamo ogni anno e ogni giorno, di fronte alla politica e di fronte alla storia, ed è il tema della memoria. La memoria cui non vogliamo abdicare e che ci viene spesso rimproverata dagli altri, e la dobbiamo rinnovare di continuo per non rinunciarvi e per non rinunciare a un elemento fondante del nostro essere ebrei.
E c’è il tema dei musei, che costruiamo, curiamo, gestiamo e manteniamo, per dire chi siamo, per diffondere conoscenza dell’ebraismo, ma che finiscono per assorbirci e magari ci fanno credere che il nostro dovere principale sia quello di tramandare conoscenza di ciò che siamo stati, piuttosto che vivere consapevolmente ciò che siamo, magari anche soltanto con la nostra presenza fisica nelle attività di comunità. Ci preoccupiamo di lasciare traccia di noi, piuttosto che preoccuparci di essere parte viva della nostra collettività. Viviamo la nostra identità più come ricordo, magari anche come un’acuta nostalgia, che non come impegno presente e vivo.
C’è da lottare perché il museo non schiacci e non prenda il sopravvento sulla vita comunitaria, sia nei fatti che nella nostra coscienza. Il museo non può diventare il memoriale della nostra presenza passata.
C’è anche il tema eterno del ghiur. Quanti di noi, al suono della parola ‘rinnovamento’, non hanno pensato al problema dei ghiurim e della conservazione delle nostre comunità? Il ghiur con tutti i problemi connessi, che non sono solo quelli del ghiur facile, ma anche quelli del nostro allontanamento dalla vita ebraica. Perché ogni problema ha almeno due facce, e mai una soltanto.
Si dice che l’ebraismo italiano di oggi sia in ripresa grazie a un rinnovamento dell’ortodossia. Ma questo rinnovamento dell’ortodossia ha provocato un rinnovamento dell’ebraismo anche in direzione opposta, di una più semplice vivibilità. Forse se l’uno né l’altro rinnovamento corrispondono alla storia dell’ebraismo italiano. Né l’uno né l’altro tengono conto di una coscienza dell’ebraismo che si è formata e solidificata nel corso di cinque secoli, con una sua storia, e uno sviluppo della storia e della coscienza, che si sono ben sedimentati in un’identità che non è facile sradicare all’improvviso sull’onda di mode o di influenze dall’esterno.
Il rinnovamento forse non è un’affermazione, non è un invito, e non è un porto sicuro a cui dirigersi per trovare salvezza certa.
Forse è invece un interrogativo e una sfida, da affrontare giorno per giorno, come una pelle che senza che ce ne accorgiamo cade e si rinnova. Noi, davanti allo specchio, ci vediamo sempre uguali a noi stessi. Eppure, per rimanere sempre uguali noi stessi, quanta fatica!
Dario Calimani