La scommessa del rinnovamento

Il programma della XIII edizione della festa del libro ebraico (Ferrara, 15-18 settembre) tocca due temi: il rapporto tra ebraismo e immagine e il rinnovamento, parola scelta per omaggiare la Giornata Europea della Cultura Ebraica (18 settembre 2022) che coincide con l’ultimo giorno della Festa del Libro Ebraico e viene dedicata proprio a questo concetto dai molteplici significati. Una parola, rinnovamento, che rappresenta in questo periodo storico una vera e propria sfida. Ma ci tornerò più avanti, prima vorrei riflettere brevemente sulla connessione tra ebraismo e immagine.
C’è un’origine inquieta intorno al rapporto tra ebraismo e immagini. La prima traccia è nella proibizione delle immagini che deriverebbe dal secondo dei Dieci Comandamenti. Riprendo letteralmente dal testo che troviamo in due versioni.
La prima: «Non ti farai alcuna scultura né immagine qualsiasi di tutti quanto esiste in cielo al di sopra e in terra al di sotto o nelle acque al di sotto della terra. Non ti prostrare loro e non adorarli poiché Io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso che punisce il peccato dei padri sui figli fino alla terza generazione e alla quarta generazione per coloro che mi odiano. E che uso bontà fino alla millesima generazione per coloro che Mi amano e che osservano i miei precetti» [Esodo, 20, vv.4-6].
La seconda [Deuteronomio 5, vv. 8-10] non differisce molto dalla prima, ma più che proibire le immagini proibisce la loro adorazione idolatrica. L’effetto di questa proibizione è comunque che nel mondo ebraico le immagini hanno una storia per certi aspetti complicata.
Come si legge nella Mishnah – il corpo di sistemazione delle leggi e consuetudini redatto intorno al III secolo e.v. che stabilisce ciò che è lecito e ciò che non lo è in un tempo in cui non c‘è più un centro culturale e politico a Gerusalemme che certifichi del comportamento collettivo – «è proibito tutto ciò che viene usato come divinità; ciò che non viene usato come divinità è permesso» [Mishnah, ‘Avodah Zarah, III, 44]. Le immagini a quel punto hanno una possibilità concreta di crescere e di esserci anche laddove non ce lo aspetteremmo.
Così raffigurazioni non solo astratte ma anche concrete riferite a temi importanti sono oggetto di raffigurazione artistica, compaiono anche all’interno di sinagoghe. Per esempio nella sinagoga Dura-Europos in Mesopotamia, che è appunto dello stesso periodo del testo della Mishnah citato, oltre a molte rappresentazioni di vita quotidiana, spiccano le tavole pittoriche murarie relative al tema della resurrezione dei morti (ripreso dalle la narrazione del Profeta Ezechiele).
Dunque la proibizione non costituisce un interdetto e del resto nel tempo e in vari luoghi, ma soprattutto in alcune produzioni letterarie le immagini abbiano avuto non solo cittadinanza, ma anzi hanno avuto un loro spazio riconosciuto e accreditato.
Per esempio nei contratti matrimoniali [in ebraico: Ketuboth], che è un documento costituito da due componenti: un testo scritto – che è una costante eccetto i dati specifici dei nomi dei contraenti il matrimonio – e la data; e un insieme di disegni liberi che ruotano intorno al testo e che sono rappresentazioni che alludono a luoghi o a simboli.
Oppure, ancora più significativo, nel testo delle Hagadah di Pesach [lett.: racconto di Pasqua], il testo che viene letto durante la cena rituale della Pasqua ebraica, un testo che spesso è illustrato proprio perché la sua funzione è di coinvolgere i bambini nel racconto. Di questo tipo di testo – forse il più ricco di immagini, spesso in edizioni anche moderne – alle volte capita di trovare delle immagini sorprendenti, come quella presente in un’edizione di seconda metà del XIX secolo dove compare Dio, letteralmente (con barba lunga, e aureola sopra la testa), nella scena del roveto ardente, quando si manifesta a Mosè [Esodo, v. 3 e sgg].
Dunque il tema ebraismo e immagine non è tanto la storia di un interdetto, ma sono soprattutto i percorsi creativi in cui quella via dell’immaginazione trova le strade, le forme, per esserci e per essere parte attiva non solo di un’identità ma del suo costruirsi nel tempo.
Questo criterio è importante perché per certi aspetti non è solo in relazione al rapporto con le immagini che ci è utile utilizzarlo.
Proprio questa categoria – nel tempo – è importante quando si parla di rinnovamento.
L’innovazione, la scoperta del nuovo possono consistere più che nella rottura con la tradizione, con il passato, in un nuovo modo di leggere il passato, la tradizione. Forse nessuno meglio di Ludwig Wittgenstein ha saputo dirlo: «Devi dire qualcosa di nuovo, che però sia tutto vecchio. Devi comunque dire soltanto qualcosa di vecchio che però sia nuovo!” [Wittgenstein, Pensieri diversi).
E tuttavia leggere il rinnovamento solo con questa preoccupazione, o guardarlo come l’espressione di un ritorno ciclico nel tempo, per esempio attraverso l’organizzazione del calendario, non definisce un aspetto specifico dell’esperienza culturale ebraica del concetto di rinnovamento.
Il rinnovamento se legato o spiegato con il ciclo temporale, ha dimostrato con chiarezza Jacques Le Goff nel suo Storia e memoria, è una esperienza culturale universale che fa parte di tutte le culture – antiche e moderne – nello sforzo di dare ragione dello scorrere del tempo, ma anche del suo ripetersi come garanzia, e come consolazione o come «tampone» all’incertezza. In ogni caso risponde a un bisogno umano universale di governare ciò che sembra non deciso e subìto (per esempio il passaggio giorno/notte).
Se anche la parola חדוש [lett. Chiddush] è parola polisemica, che in ebraico è utilizzata con significati diversi come: rinnovamento, rigenerazione, scoperta (soprattutto in relazione a nuove interpretazioni), appunto quella polisemia diventa opportunità per pensare le molte strade di un concetto, ma anche le sfide che quel concetto pone, quando si tratta di riprendere le misure del proprio tempo (non è vero forse che questa è la sfida che aspetta dopo Covid?).
«Rinnovamento», dunque, non può – se si vuol proporre con una sua individualità culturale – risolversi solo o prevalentemente nella visione ciclica o nel ritorno al o la riscoperta del punto di partenza.
«Rinnovamento» deve produrre anche uno scarto, non solo nel tempo, ma anche nel passaggio da un tempo a un tempo nuovo come ha proposto Gershom Scholem nel 1959 nel suo saggio per molti spetti insuperato Per comprendere l’idea messianica nell’ebraismo (una versione in italiano è compresa in L’idea messianica nell’ebraismo, Adelphi). Pensare il tempo messianico, scrive Scholem in quel testo, significa tenere insieme due direzioni perché «Questo ordine completamente nuovo contiene elementi che appartengono al completamente vecchio, ma anche questo vecchio ordine non consiste nel passato reale; è piuttosto un passato trasformato e trasfigurato in un sogno illuminato dai raggi dell’utopia».
La redenzione nella sfera della cultura messianica ebraica, continua Scholem, non dipende da una relazione causale fra gli eventi della storia, né da uno sviluppo causale o immanente alla dinamica storica, come invece avviene nel messianismo secolarizzato dell’Illuminismo, ossia nella concezione e nella fede della storia come progresso. Dipende dalla possibilità che noi facciamo interagire tra loro un’istanza restaurativa (il passato sentito come ideale), una conservativa (che mira alla preservazione di ciò che esiste) e una spinta utopica (che mira a uno stato di cose che non si è mai dato).
Il rinnovamento non è altro che il risultato di questo scontro tripolare tra campi magnetici opposti: conservazione, restaurazione e utopia. Nel campo dell’utopia non ci sono solo gli echi delle parole di Ludwig Wittgenstein, ma anche quelli di altri pensatori in utopia del ‘900 che hanno avuto forte presenza nella costruzione del percorso culturale di Scholem: Ernst Bloch, soprattutto il suo Spirito dell’Utopia, Probabilmente Martin Buber con cui Scholem ha discusso a lungo, anche polemicamente, ma soprattutto Walter Benjamin in cui non è così impossibile ritrovare nella suggestione tra restaurazione, conservazione e utopia una eco delle Tesi di filosofia della storia.
E questo alla fine pone anche il problema di come si riprenda e si rinnovi un nuovo tempo.
Quando i Maccabei entrano nel tempio e vogliono riconsacrare quel luogo violato compiono un atto – l’accensione di un lume – che allude alla ripresa e al ricongiungimento con il tempo precedente. Come ci ha spiegato con chiarezza Arnaldo Momigliano quel tempo che va aprendosi non è la riproposizione del passato, ma apre a un nuovo tempo.
Come tutti i processi di movimento esilici, ci ha raccontato lo storico Haiym Y. Yerushalmi, la storia delle diaspore non è la riproposizione in un nuovo spazio di ciò che un gruppo umano faceva nel luogo da cui è fuggito, ma è molte cose insieme: la conservazione di qualcosa, l’acquisizione nel nuovo luogo di qualcosa che prima non c’era, e dunque è anche l’effetto di un’ibridazione, infine la costruzione di qualcosa di nuovo.
Il rinnovamento è questo: una scommessa al tempo presente di pensare futuro, meglio di «voler pensare futuro», in forza anche di un passato che si mantiene, ma che non è una «cappa» né una «zona di confort».

David Bidussa, storico sociale delle idee

(Questo testo è stato pubblicato da Mare Mosso, magazine online di Feltrinelli)