Lingue

“Quando scompare una lingua, muore con essa una visione totale – una visione come nessun’altra – della vita, della realtà, della coscienza”. Scrive Myriam Moscona citando George Steiner nel libro Tela di Cipolla (Guida Editori 2021). Un libro, o meglio una raccolta di poesie, ricordi, racconti, sogni e riflessioni storiche e linguistiche che ripercorre le tracce del judezmo e dei discendenti degli ebrei sefarditi che dalla penisola iberica trovarono rifugio soprattutto nei Balcani e poi nel Nuovo Mondo e in Israele. Le fa poi eco il poeta Marcel Cohen: “Quando si scompone la tua lingua, quando decade, quando devi chiudere gli occhi, solo nella tua stanza e pensare per ore prima di riportare alla luce due paroline, quando non c’è niente da leggere nella tua lingua, nessuno dei tuoi amici che la possa parlare con te, quando il poco che ti rimane non lo lascerai a nessuno dopo di te […] sai che la morte parla attraverso la tua bocca”.
Fortunatamente, come testimonia lo stesso libro della Moscona, il judezmo gode ancora di una qualche vitalità, lo stesso non si può dire invece per altre lingue (anche ebraiche) che non sono sopravvissute sino ad oggi o sono prossime alla scomparsa. O “dialetti” e lingue pur vive ma considerate “minoritarie” il cui uso viene ancora stigmatizzato come sintomo di analfabetismo e ignoranza.
“Ci sono parole che esistono solo in una determinata lingua perché appartengono a quella visione del mondo e a nessun’altra” rimarca più volte Myriam Moscona. Prendendo la nostra lingua corrente, come tradurre parole così caratteristiche della storia e del paesaggio italiano come “paese” – diverso dal “borgo” adesso tanto di moda -, “palazzo”, “villa” o “altopiano”? Penso per esempio quanto nel nostro presente si tenda spesso ad usare a sproposito o meno parole in lingua inglese per descrivere anche luoghi, fenomeni o situazioni comunque distanti dal mondo o dalla mentalità anglosassone in cui si sono formate. E allora un hamburger a Chicago o un piatto di stigghiole a Palermo sarà sempre “street food”, una riunione che sia nella baraccopoli di Caracas o tra i grattacieli di Singapore un “briefing”, e una festa a Milano o Amman inevitabilmente un “party”. La colpa non è certo dell’inglese che in sé è una bellissima lingua, ma piuttosto di quella tendenza dell’uomo contemporaneo alla semplificazione e al non andare oltre quella convenzionalità dettata dai nuovi modelli culturali e di consumo. A rimetterci è invece il pensiero umano il quale con un numero di lingue ridotte e un vocabolario più ristretto per esprimersi rischia di impoverirsi.

Francesco Moises Bassano