Lo spiaggiamento

Scriveva Bertrand Russell (quasi centenario, poiché vissuto tra il 1872 e il 1970, esprimendosi all’interno di una disputa filosofica la quale, in sé, poco o nulla ci interessa), che «un uomo può essere perdonato se è costretto dalla logica a giungere controvoglia a conclusioni che deplora, ma non gli si può perdonare di allontanarsi dalla logica per potere liberamente perorare il delitto». Mai una tale affermazione è risultata più puntuale per definire molti aspetti dei tempi che stiamo vivendo. Così come di coloro che li vivono, ossia li infestano e li ammorbano con le loro mistificazioni. Tra complottisti, negazionisti ma anche, più banalmente, tra i tanti individui spaesati e, quindi, spiaggiati, tanto protervi quanto incoscienti, come quei pesci e cetacei che vorrebbero avere il mare da affrontare, forse addirittura un oceano, e invece si trovano in prossimità di una riva, senza averla mai cercata. Con il rischio di morirci per mancanza dell’elemento essenziale, non solo l’acqua e l’ossigeno ma i grandi orizzonti che qualsiasi esistenza richiede per potere sopravvivere a se stessa. Evidentemente, visto che l’affermazione di Russell fu formulata molto tempo fa, anche a quell’epoca le cose dovevano risultare non poco sconclusionate. Va da sé, tuttavia, che ognuno si occupa del tempo che vive, magari ricorrendo al passato per trovare qualche analogia con le miserie correnti. Non molto di più. Poiché, ciò che è storia, trascorre e non si ripete mai compiutamente, mentre alcuni solchi, e calchi di quanto avvenne, si possono invece ripresentare oggidì. Tutto qui. Non è poco, francamente: nella crisi delle democrazie inclusive, non torna il passato ma si perdono le possibilità che il presente altrimenti ci dovrebbe offrire. Ciò avviene soprattutto per paura, quella che anima come spettri il tempo che viviamo. E che nutre i demiurghi della catastrofe a venire. Poiché nel racconto della storia quello che conta non è mai il passato ma l’incapacità di affrontare il presente avendo a desiderio il futuro. Ossia, ciò che di esso temiamo. In quanto non abbiamo gli strumenti, ossia la cassetta degli attrezzi, per farvi fronte. Intendiamoci da subito, senza tanti giri di parole: il problema non è mai quello di “fare i nomi” – qualcuno direbbe evocare i “peccatori”, assecondando la linea del gossip (e con esso il mainstream dominante) per il quale, guardando dal buco della serratura, non importa e non conta cosa si stia facendo bensì chi lo sta facendo – ma di identificare il nocciolo del problema. E tale nocciolo, oggi, non riposa mai nelle persone bensì nelle condotte collettive. Le quali sono spesso impotenti dinanzi al cambiamento che stiamo vivendo sulla nostra pelle. Vissuto come età dell’espropriazione: dei diritti, delle certezze, degli orizzonti per l’appunto. È ciò che ci crea disagio. Non tutto il resto. Non di certo la «tradizione», i «valori» e cos’altro. I quali perdurano nel tempo non come vuote icone del passato, simulacri di ciò che fu, bensì come consapevolezza della prospettiva, ossia di ciò che sta alle nostre spalle e, con esso, di quanto si pone dinanzi a noi. Anche il tema della «memoria» va riformulato alla luce di questa dolente consapevolezza. Poiché gli smemorati, del passato così come del presente, davanti all’evidente crisi delle democrazie si stanno affermando di nuovo. Riempiono il vuoto della speranza con il pieno delle loro paure. Ecco, questa è la vera (ed unica) analogia con il passato. Non molto di più né di meno. La memoria non è storia ma è un codice profondo. Una consapevolezza etica.

Claudio Vercelli

(18 settembre 2022)