La musica nel lager,
acceleratore del tempo

La maggior parte del tempo dedicato alla ricerca musicale concentrazionaria è assorbito dalla ricostruzione dei profili biografici di musicisti deportati o internati e dal recupero delle loro opere musicali prodotte in cattività civile, militare e politica dall’apertura del primo Lager alla chiusura dell’ultimo Gulag; passando ovviamente per Ghetti, prigioni sotto occupazione militare, navi e ostelli rimodulati in Campi di prigionia, Stalag, Oflag, Campi di lavoro della NKVD e altro.
Bisogna altresì tener conto del trauma che la fenomenologia deportatoria messa in atto dai regimi nazionalsocialista e stalinista provocò su gran parte delle popolazioni dei Paesi occupati o di minoranze sociali, linguistiche e religiose ricadenti nel territorio del Reich e dell’Unione Sovietica.
In una più vasta e articolata lettura sociologica, non trattasi soltanto di musicisti trasferiti dalle loro abitazioni presso Ghetti o Campi, deportati, uccisi, fucilati in esecuzioni di massa, raramente sopravvissuti; nel caso della popolazione ebraica dell’Europa orientale è scomparso un mondo, interi nuclei familiari dal bisnonno al nipote passando per genitori o fratelli o zii o cugini, abili creatori ed esecutori di musica tradizionale e colta prodotta in shtetl, città rurali e altre realtà urbane.
Questi musicisti creavano musica da strada o da teatro popolare, spettacoli per il teatro impegnato, cabaret, parodie; nonostante ci fossero nomi eccellenti nel panorama della tradizione musicale ebraica di lingua yiddish, nella maggior parte dei casi è arduo risalire all’autore poiché, ancor prima che musicale, è un intero contesto familiare e sociale transeuropeo a essersi disintegrato.
In un contesto enciclopedico occorre per esempio citare il compositore, direttore d’orchestra, cantore e maestro di coro ebreo bielorusso Akiva Durmashkin (foto) che si trasferì nella città polacca di Radom e successivamente a Vilnius divenendo hazan presso la sinagoga Didžioji Vilniaus; a seguito dell’occupazione tedesca, fu trasferito presso il Ghetto della capitale lituana e successivamente presso la Lukiškių tardymo izoliatorius kalėjimas, morì nel 1943 durante gli eccidi di Ponary.
Tuttavia, per le medesime ragioni occorre altresì citare musicisti, arrangiatori, cantanti, direttori di palcoscenico, accordatori, copisti, direttori di coro, tanti di essi tuttora senza nome nonché morti di inedia e malattie o in eccidi e combattimenti a seguito della liquidazione dei Ghetti; il mondo che circondava un musicista ebreo dell’Europa orientale era esso stesso fatto di musica, teatro, arte.
Nella musica concentrazionaria la Memoria si fa Letteratura; perché ciò sia efficace, la Memoria deve poggiare sulle colonne di una ricerca storica condotta con scrupolo scientifico, meticoloso controllo delle fonti e interfaccia con l’impianto storiografico della Seconda Guerra Mondiale.
A differenza dei Ghetti dove nella maggior parte dei casi musicisti, attori e pubblico usufruirono di ottimi teatri, nei Campi un elemento artistico-musicale particolarmente precario era lo spazio teatrale; ovviamente l’artista fece di necessità virtù, pertanto adattò spazi piccoli e angusti alle proprie esigenze teatrali, scenografiche e in alcuni casi inventò nuove forme di teatro.
Negli angusti teatri di Lager e Gulag, dove orchestra e cantanti suonavano e cantavano a distanza di braccio, artisti e musicisti in genere crearono il teatro nel teatro o il teatro che interagisce direttamente con il pubblico; non potendo effettuare poderosi cambi di scena, l’opera si basava generalmente su un unico atto con un cartonato che fungeva altresì da quinta per i cantanti.
Vedasi Solovetskomu gimnu di Aleksandr Aleksandrovich Kenel’ (prodotta nel Gulag sulle isole Solovki), Der Kaiser von Atlantis di Viktor Ullmann o Brundibár di Hans Krása (entrambe prodotte a Theresienstadt), in quest’ultima diverse finestre sono aperte nel cartonato affinché i ragazzi possano affacciarsi; talora si creano forme ibride di rappresentazione scenica su piattaforme circolari, vedasi Renaissance di Émile Goué (prodotta nello Oflag XA Nienburg/Weser), mimo-opera nella quale il cantante recita mimando mentre l’opera è strutturalmente un oratorio nel quale i cantanti sono fermi.
In realtà, non già musicisti e cantanti, ma è il tempo concentrazionario che collassa sin quasi a fermarsi; la musica agisce da detonatore e, come nel film The Core diretto da Jon Amiel (2003), esplodendo fa ripartire il nucleo temporale del pianeta-Campo e a modo suo ne accelera il moto.
Quello del musicista deportato è un tempo strano, come se un corridore facesse i 100 metri in 10 secondi non correndo ma marciando; il tempo musicale mangia se stesso e, wormhole aperto sul piano terrestre, trasforma la bidimensionalità di Lager e Gulag in un mondo quadridimensionale.
Il gap tra presente ed eterno è breve; ci pensa la musica, unico acceleratore impazzito del tempo.

Francesco Lotoro