Periscopio – Dante e le lingue
Abbiamo parlato, la scorsa puntata, della narrazione che Dante dà di quella che sarebbe stata la prima lingua dell’umanità, notando che emergerebbe una contraddizione tra la visione proposta nel De vulgari eloquentia e quella rappresentata nel XXVI Canto del Paradiso. Nel trattato, infatti, il poeta sostiene che la lingua di Adamo, in quanto di creazione divina, sarebbe eterna e immutabile, e, dopo l’episodio della Torre di Babele, avrebbe continuato a essere parlata dal solo popolo d’Israele. Nella Commedia, invece, Dante dice che le lingue umane sarebbero dei normali prodotti storici, oggetto dei fisiologici mutamenti umani.
Tale apparente contraddizione è stata oggetto di diverse interpretazioni, e alcuni commentatori di impostazione cattolica hanno insistito nel dare ragione al Dante della Commedia contro quello del De vulgari eloquentia, per smentire l’idea che l’ebraico sarebbe l’unica lingua di origine divina. Se c’è una lingua divina, essa può essere il latino, la lingua della Chiesa e della piena Rivelazione, non certo l’ebraico, idioma limitato al solo cd. “Antico Testamento” (il cui vero significato, poi, è svelato solo dalla sua traduzione in latino, e dal confronto col Nuovo, come lapidariamente affermò Agostino: Novum in Vetere latet, Vetus in Novo patet: il Nuovo è latente nel Vecchio, il Vecchio si manifesta nel Nuovo).
Il nome del Signore, dice Adamo a Dante, nel XXVI Canto, cambiò dopo la sua morte e la sua discesa nel Limbo: prima era, semplicemente, I, poi diventò El. Prima una sola lettera, poi solo due.
Cosa voleva dire Dante?
La seconda parola, la sillaba El, è chiaramente il nome ebraico del Signore, che compare tante volte nella Torah, nella forma plurale Elohìm. Secondo Dante, fu quello il nome dato a Dio dopo la morte di Adamo, quindi esattamente 930 anni dopo la creazione del primo uomo. Attenzione: Dante non dice che quel nome sarebbe rimasto l’unico anche in seguito, e non afferma quindi il Signore debba essere da tutti chiamato ancora in quel modo. Ed è vero che afferma che le lingue umane cambiano. Il Signore sarebbe stato poi chiamato con tanti altri appellativi, in greco, latino, provenzale, volgare ecc., ed era giusto che fosse così. Resta un dato di fatto, però, che il poeta menziona uno solo dei nomi di Dio, quello ebraico.
E cosa dire riguardo alla I, il primo nome, usato in quei primi 930 anni?
Alcuni commentatori hanno pensato che esso sia stato scelto, come è stato detto, “per la sua massima semplicità, paragonabile a quella divina” (Chiavacci Leonardi), oppure per la sua somiglianza col numero 1, quale simbolo dell’unicità del Signore. Senz’altro da preferire, però, l’ipotesi, avanzata da alcuni studiosi (quali Lampredi e Servi), che la I stia a indicare la prima lettera del Tetragramma, ossia il nome del Signore che, com’è noto, nella tradizione ebraica, può essere scritto, ma mai pronunciato. Con questo passaggio da I a El Dante sembra dare una propria personale interpretazione, decisamente originale e suggestiva, della nota alternanza, nella Torah, di due modi diversi di menzionare il nome del Creatore, col tetragramma o con la parola Elohìm. Tale alternanza ha fatto pensare i filologi a due diverse tradizioni letterarie, ma Dante sembra difendere, anche sul piano linguistico, l’unità e l’eternità della Torah. Il primo e il secondo nome di Dio furono e restano in ebraico, solo dopo sarebbero venuti gli altri.
Se questa lettura è vera, se ne possono dedurre due considerazioni.
La prima è il grande rispetto che Dante mostra verso il tetragramma, evitando di scriverlo per esteso. La Commedia, infatti, resta un testo poetico, non sarebbe certo stato pensabile che i lettori, vedendo scritte per esteso quelle quattro lettere, si astenessero dal pronunciarle. Nessuno lo avrebbe mai fatto.
La seconda è che la contraddizione tra quanto scritto nel De vulgari eloquentia e nella Commedia è solo apparente. È vero che le lingue umane cambiano, e che anche il nome di Dio può cambiare. Ciò, però, vale per tutte le genti che parteciparono alla costruzione della Torre di Babele, e che subirono la confusione delle lingue, non per il popolo ebraico, che non vi prese parte, e la cui lingua rimase e resterà sempre la stessa.
Dante, attraverso Adamo, intende ‘legittimare’ tutte le altre lingue (a partire dal latino e dal volgare), ma non smentisce la sua tesi secondo cui la lingua di Adamo (in vita, così come nel Limbo e, ancora, in Paradiso) fu e resta l’ebraico. La lingua del Bereshìt, del “principio” dell’umanità, così come della sua fine.
Francesco Lucrezi