Ticketless – Dove scappare in caso di guerre e invasioni
Nella storia degli ebrei (e non solo in quella) scappare in caso di necessità è una costante. Sapere bene dove andare idem. Scrive sul Corriere lo scienziato Carlo Rovelli – che temo sia più influente dello sconosciuto (e sprovveduto) neo-vincitore del Premio Campiello, il cui libro ho poca voglia di leggere dopo aver letto questa settimana le sue interviste – l’ipocrisia sarebbe quella dell’Occidente, che si dice “baluardo della libertà, garante della legalità, speranza per la pace” ed è impegnato in uno sterminato elenco di operazioni militari, citate dal Professore con puntiglio: “Afghanistan, Iraq, Libia, Serbia, Yemen, Grenada, Panama, Cile, Algeria, Egitto, Palestina”.
Rovelli dixit, non Di Battista. Che io sappia il professore vive e lavora in una università d’oltreoceano. La sua intervista ha suscitato giuste proteste, non sto a ripeterle. Ci si è chiesti che cosa direbbe se gli storici entrassero a gamba tesa nelle sue ricerche di fisica con la stessa beata sfrontatezza con cui lui mette insieme eventi così diversi fra loro. Più che rabbia la sua posizione a me suscita il fastidio generato dalla nostalgia di cosa si diceva e insegnava in Italia ai tempi del colpo di stato in Cile, della P2, di Gladio o del paventato colpo di stato orchestrato da Edgardo Sogno. Si discorreva per celia tra noi studenti, si ammoniva con severo cipiglio ex cathedra da docenti di storia contemporanea. Si ripeteva quello che gli ebrei sanno da secol. Sempre bisogna stare accorti pronti a scappare. E stabilire per tempo dove andare. Gli intellettuali (Pasolini e Arbasino esclusi) dicevano: quando ci sarà il colpo di stato la macchina è sempre pronta a partire per Trieste e di lì raggiungere la libertà in direzione di Mosca o di Pechino. La Cina è vicina. Pochi anni dopo quegli stessi docenti avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di veder tradotto in inglese un loro libro o diventare visiting professor in una università americana. Allora con ingenuo candore lo scrivevano (ho i ritagli) negli editoriali dei quotidiani, a lezione era un triste refrain. Si continuò a scriverlo e a spiegarlo a lezione fino al 1989 e dintorni. Oggi non lo si dice e soprattutto non lo si insegna più, ma l’ipocrisia infastidisce anche se velata da nostalgia vedendo elencare le nefandezze dell’occidente in uno studio televisivo, o, peggio, in un elegante studio di un professore che parla da un college arredato in modo molto british, con morbide poltrone, giacche di tweed, scaffali in legno pregiato. Soffriamo per la sottile ipocrisia. La guerra in Ucraina è lontana, lontanissimo (speriamo) il momento in cui dovremo decidere dove andare, ma è sempre meglio essere preparati e informati in tempo. Per quanto numerose e orribilissime siano state e siano le nefandezze compiute dall’Occidente, per quanto fastidioso sia tollerare Sigonella o stare sotto l’ombrello molesto della Nato, in caso di necessità, sarebbe meglio conoscere in anticipo nomi e cognomi dei temerari cavalieri disposti a ripetere l’esortazione di Cechov: “A Mosca, a Mosca!”
Alberto Cavaglion