Periscopio
Pape Satàn, pape Satàn aleppe

Abbiamo parlato, nelle due scorse puntate, di come Dante affronti, nella Commedia e nel De vulgari eloquentia (ove, come abbiamo visto, risultano formulate due visioni almeno apparentemente diverse), la questione di quale fosse la lingua primigenia dell’umanità, parlata da Adamo. E sembrerebbe potersi desumere che l’idea del poeta sia che tale lingua fosse quella che poi, dopo Adamo, Noè ed Abramo, sarebbe rimasta come idioma del popolo ebraico, e solo di esso.
Ma l’interesse di Dante per la lingua ebraica (che non conosceva direttamente, così come non conosceva il greco) non si ferma solo a questo, dal momento che, com’è noto, il poeta ritiene di inserire alcune parole di tale idioma in alcuni tra i più celebri versi della Commedia.
Prima di prendere in considerazione tali citazioni, però, ritengo opportuno esaminare il caso di un verso che è stato molto spesso collegato all’ebraico, ma, a mio modesto avviso, impropriamente.
Mi riferisco alla celeberrima esclamazione pronunciata da Pluto all’inizio del VII Canto dell’Inferno: Pape Satàn, pape Satàn Aleppe! (VII. 1). Essa è profferita dal dio greco della ricchezza alla vista degli inattesi visitatori, che pretenderebbero di fare ingresso nel quarto cerchio infernale, quello degli avari, del quale egli è posto a vigilanza. Dante, comprensibilmente, appare spaventato da quelle oscure parole, ma Virgilio lo rincuora, e zittisce perentoriamente il guardiano del girone: “Taci, maledetto lupo!/ consuma dentro te con la tua rabbia./ Non è sanza cagion l’andare al cupo;/ vuolsi ne l’alto, là dove Michele/ fé la vendetta del superbo strupo” (8-12).
Le spiegazioni date alle parole di Pluto sono innumerevoli, e non è il caso di soffermarcisi, anche perché il discorso porterebbe alquanto fuori tema. È stato supposto che la parola pape esprimerebbe un sentimento di dolore o di meraviglia, e deriverebbe dal latino papae, a sua volta derivazione del greco papai, mentre aleppe sarebbe un grido di dolore, come già nelle lamentazioni di Geremia (“Oh Satana, ahimè!”). Altri hanno visto in aleppe una traslitterazione della aleph, la prima lettera dell’alfabeto ebraico, usata nel senso di ‘principe’, principio’ (“Oh Satana, principe delle tenebre!”). Si è anche supposto che il pape avesse significato locativo, nel senso di “qui”, e che il senso della frase sia “Qui Satana è il principe”. Oppure, che pape volesse dire “padre”, in quanto Satana è il padre di tutti i diavoli. O, ancora, che la parola derivi dal latino tardo papa (a sua volta derivante dal greco papas), come appellativo riservato prima agli esponenti del clero e poi al solo Sommo Pontefice (“Satana, papa dei diavoli”). Ancora, si sarebbe visto in aleppe una invocazione di aiuto, rivolta da Pluto al principe delle tenebre.
Fondamentalmente, le interpretazioni si dividono in tre categorie: o un grido di paura (“Oh, Satana, ahimè!”), o un ammonimento ai visitatori a stare lontani (“Qui regna il principe Satana” [e quindi andate via]), o un’invocazione di soccorso (“padre Satana, aiuto!” [che sta succedendo? Chi sono questi intrusi?]). Molti commentatori, comunque, si mostrano d’accordo nel prendere atto che la frase sarebbe composta da due parole ebraiche (Satan e aleppe, da aleph) e una greca o latina (papa, papai, papas).
Personalmente, da non esperto in materia, non sottovaluterei il dato, che non mi pare essre stato evidenziato dalla dottrina, che Pluto, che pronuncia quelle parole, è rappresentato non come un essere umano, ma come una “fiera crudele” (15), e segnatamente un “lupo” (evidente il richiamo alla lupa, la temibile fiera che, nel primo Canto, impedisce al poeta la salita al colle, e sulla quale ci siamo già soffermati). Quelle parole, quindi, non sono parole umane, sono parole bestiali. Delle tre, l’unica certamente riconoscibile è la seconda, Satàn, che indica chiaramente il demonio, il cui nome è pronunciato dal lupo come una specie di bestemmia, di grido di rabbia (e infatti Virgilio gli impone di consumare dentro di sé la sua “rabbia”) e di meraviglia: lo stupore sbigottito derivante dal vedere un vivente e un abitante del Limbo osare entrare nel suo regno (e infatti Virgilio gli ordina di non porsi domande inutili, perché quella visita è voluta nell’alto dei cieli, dove l’arcangelo Michele punì la ribellione di Lucifero: “fé la vendetta del superbo strupo”).
“È inutile, Pluto, che tu invochi Satana, il tuo padrone, perché egli è già stato sconfitto da Michele, e ora entrambi, tu e Lucifero, dovete obbedire alla volontà di quel Dio che vi ha debellato”. Questo il senso delle parole di Virgilio, di fronte alle quali la “fiera crudele” si abbatte, in una scena di rara potenza, descritta attraverso una delle più mirabili similitudini dantesche: “Quali dal vento le gonfiate vele/ caggionio avvolte, poi che l’alber fiacca,/ tal cadde a terra la fiera crudele” (13-15).
A mio avviso, per valutare il senso delle parole di Pluto, occorre metterle a confronto proprio con quelle di Virgilio: le seconde sono chiare, limpide, di immediata intellegibilità, così come le prime sono criptiche, oscure e tenebrose. Perché le seconde sono parole umane, le parole della ragione (di cui Virgilio è il simbolo), mentre le prime sono suoni (non parole) animaleschi, usciti dalla “’nfiata labbia” (7), dalla bocca gionfiata dall’ira di un lupo. L’avarizia è un peccato contro la ragione, e chi se ne macchia si abbrutisce, perdendo le proprie carattersitiche umane, avvicinandosi al lupo rabbioso che vigila sull’ingresso del girone.
È vero che i suoni pape e aleppe evocano parole umane, ma, secondo me, ciò è voluto, per dare l’idea di un linguaggio umano ormai imbestiato, svuotato di senso e di significato. Solo il suono Satàn rinvia a un senso comprensibile, ma, attenzione, è il senso del male, di quella forza nera che esprime il contrario dell’umanità e della ragione. Una parola di origine ebraica, certo, ma che poi diventa di uso corrente, entrando in latino, arabo, volgare e in tante altre lingue.
Diversamente da quanto spesso si legge nei commenti, pertanto, riterrei che quelle pronunciate da Pluto non siano parole ebraiche, e neanche parole umane.
Diversi, invece, i casi della frase pronunciata da Nembròt nel XXXI Canto dell’Inferno e, soprattutto, della famosa terzina posta all’inizio del VII Canto del Paradiso, sulle quali ci soffermeremo nelle prossime puntate.

Francesco Lucrezi