Guerre futili
“E che cosa ci faccio alla guerra? […] Che cosa ci vado a fare, nell’esercito svedese? A incendiar villaggi, rovinare i raccolti ai contadini e portargli via il bestiame. A foraggiare di casa in casa, spaventare a morte la povera gente, tormentarla, coprirla d’improperi, frustarla a sangue: “Tira fuori quello che hai, canaglia!”. Dovrei esser pazzo per voler diventare un soldato del re di Svezia, scavar trincee, andare alla carica, sfiancare il mio cavallo. Se è in lite con lo zar dei Moscoviti è affar suo: si batta pure con lui, o ci si metta d’accordo, se preferisce; a me che me ne importa?”.
Questo passo tratto da Il Cavaliere Svedese (1936) di Leo Perutz ben evoca l’assurdità della guerra e la tragedia nelle esistenze che essa finisce sempre per travolgere. E per quanto le epoche siano lontane – il romanzo di Perutz è ambientato all’inizio del Settecento durante la grande guerra del Nord tra impero svedese e regno russo – non è così diverso dai sentimenti dei ragazzi ora in fuga dalla Russia per evitare l’arruolamento nell’esercito, e quindi il loro impiego nell’occupazione dell’Ucraina. Come denota per esempio quel video girato in Daghestan in cui un ufficiale di reclutamento, invitando i locali refrattari al reclutamento, afferma che essi “devono lottare per il futuro”, e un uomo risponde: “Non abbiamo nemmeno un presente, di che futuro parli?”.
Perutz eterno inquieto, esule sia in Israele che in Europa, riteneva il nazionalismo “colpevole di ogni disgrazia” e la guerra combattuta da grandi imperi sempre per ragioni futili e lontane dai reali bisogni della popolazione è spesso sullo sfondo dei propri romanzi.
In una lettera all’amico Bruno Brehm – una tra le sue varie amicizie “anomale” visto che Brehm non nascose simpatie nei confronti del nazismo – Perutz scrisse da Tel Aviv: “Siamo stati tutti alquanto incauti nella scelta del nostro secolo, benché io tema che non sarà migliore il prossimo”.
Francesco Moises Bassano