La profezia

Tempo verrà per analisi approfondite. Anche perché la situazione politica (e istituzionale) è, e rimarrà per più aspetti, imprevedibile. Comunque fluida, almeno per un po’ di tempo. Risparmiamoci i tormentoni sulla «crisi della sinistra» (un colloquialismo che è nato con la stessa area politica alla quale si rivolge, essendo un classico del nonsense) così come il dibattito sul «ritorno del fascismo», qualcosa che così formulato azzera qualsiasi ipotesi di riflessione sulle molteplici trasformazioni del nostro Paese. Ciò che leggiamo in questi giorni, infatti, quando non sia mera cronaca, era già stato scritto nelle settimane precedenti, posto che la vittoria del «post-fascismo» era stata abbondantemente annunciata anzitempo. Fatto che, in sé, nulla attenua dell’impatto di questo risultato. Ragion per cui è meglio fare sbollire sentimenti e risentimenti, emozioni e cos’altro, per poi raccogliere le idee e cercare di farle circolare. C’è da compiere una riflessione obbligata sul passato così come qualcosa da ipotizzare per il tempo a venire. Evitando cliché e stereotipi pappagalleschi. Solo qualche indicazione di massima, quindi, al riguardo. La prima di esse è che non vince il centro-destra, ma la destra tale e quale, cioè quella extra-costituzionale. Cosiddetta poiché non ostile a priori rispetto alla Costituzione ma estranea al sistema di pattuizioni, legami e reciprocità che dal 1945 in poi concorsero alla sua redazione, promulgazione, attuazione fino ai tempi recenti, ossia alla fine del secolo appena trascorso. La nozione stessa di «centro-destra», peraltro, da tempo non ha più troppa ragione di continuare a sussistere; così come continuare a parlare di «sinistra» ha scarsa rilevanza empirica, ovvero nessun significato concreto. In quest’ultimo caso, infatti, il referente principale in Italia è un partito centrista laico, il Pd, che ha molte più assonanze con Yesh Atid di Yair Lapid che non con il Meretz (tanto per fare un accostamento tra i diversi possibili). Le tradizioni delle culture politiche socialista e socialdemocratica sono oramai un pallido ricordo, in Italia come anche in Israele (e nella stessa Europa). Quella comunista si è – di fatto – auto-disintegrata già nei tre decenni trascorsi. La fine dell’industrialismo, e il passaggio ad un capitalismo digitale, comporta anche queste fibrillazioni politiche. Ha quindi vinto, semmai, un blocco di forze tra di loro eterogenee e conflittuali ma che hanno una matrice comune, ossia quella di tradurre il disagio e il disincanto dei molti in massa critica, ossia in richiesta di protezione dagli effetti, altrimenti devastanti, dei cambiamenti economici e sociali in atto in Italia come nel resto del mondo. Le polemiche, presenti e future, contro una tale alleanza – peraltro di per sé precaria poiché in Italia il predominio è al momento assicurato a Giorgia Meloni, ma a fronte di molte insidie e opposizioni, spesso interne al suo stesso campo – benché possano avere un indiscutibile fondamento politico sono molto spesso ispirate ad una visione dei rapporti sociali che è di natura perlopiù liberista (e non liberale!). Contro quest’ultima, che consegna gli individui al loro destino solitario, in un’economia mercatista che non guarda in faccia nessuno, molti elettori hanno espresso la loro crescente indisponibilità. Ed hanno trovato nella destra post-liberale, prima ancora che post-fascista, un interlocutore più o meno credibile. Infatti, ed è un’ulteriore riflessione, un tratto prevalente di questa destra è la sua illiberalità e l’antipluralismo: l’illiberalità è la convinzione che il sistema istituzionale di derivazione liberale sia incapace di fare fronte, sul piano politico, alla domanda di tutele che cresce dalle società; l’antipluralismo è la certezza, dal punto di vista di chi la pratica, che le segmentazioni e le vivaci differenziazioni culturali, civili e di condotte che attraversano le nostre società, non costituiscano una risorsa bensì un processo rischioso, sostanzialmente centrifugo. Anche per questa ragione il modello proposto da Meloni è quello di una comunità nazionale composta invece da «patrioti», tra di loro affratellati più da un vincolo di reciprocità etno-culturale che non da una lealtà costituzionale. L’idea di cittadinanza, nella destra post-liberale, è esattamente opposta a quella voluta e praticata dalle élite che invece si riconoscono nel solco della globalizzazione. La leader di Fratelli d’Italia, e i suoi alleati, dicono che il vero rifugio e il ristoro certo riposano semmai nei territori, intesi come spazi abitati da «nazioni» omogenee. Tutto quello che esula da esse, è potenzialmente una minaccia. Si tratta della radice del cosiddetto sovranismo. Il neoliberalismo, in ciò convergente con il liberismo che invece predica la centralità dei mercati, indica nella circolazione di tutto (e tutti) il fondamento delle libertà dei moderni. Quanto il costrutto sovranista e identitario possa tradursi in indirizzi politici concreti, tali perché destinati a pesare sulla società italiana nel suo insieme, al di là delle stesse enunciazioni di principio, lo potrà dire solo il tempo a venire (ossia le decisioni concretamente assunte, e implementate, di qui in avanti). A ciò va aggiunto il riscontro che una corposa parte dell’elettorato non partecipa più ai processi rappresentativi. Quindi, si sottrae al voto: può sembrare un elemento accessorio, in questo frangente, ma è piuttosto il segnale di una profonda e antica sfiducia che, ora come non mai, attraversa l’Italia. A un tale segmento del Paese non si risponde con le esortazioni o, peggio ancora, con i moralismi di circostanza, poiché esso ci segnala che ci sono oramai due società, coesistenti sul medesimo territorio, che non si parlano più. Quella, numericamente decrescente, degli integrati e quella, invece, di coloro che si sentono (non importa se a torto o a ragione) marginalizzati e, quindi, in via di esclusione. La disaffezione elettorale segnala questo stato di cose. Chi non vota oggi non è detto che rimanga silente per sempre: si può stare certi che, qualora dovesse riconoscersi in un qualche radicalismo a venire, gli consegnerà il suo assenso. Anche su una scheda. Il supermento del liberalismo tradizionale, ossia la sua sconfitta per mano populista, nel caso italiano indica poi come il calco fascistico (che è cosa ben diversa dal fascismo come fenomeno storico, in sé conchiuso), sia una costante da sempre della storia della nostra Repubblica. Non per questo i “neri“ hanno vinto, essendo essi stessi semmai dei “grigi”, che debbono fare i conti con la dura realtà. La quale, per inciso, ci dirà in che cosa consista, a rigore di metafora, il grigiore di cui questi signori si sono cosparsi non solo il capo ma tutto il “corpo”: un grigiore che per certuni è solo una tattica temporanea, per nascondere intendimenti antidemocratici (la «presa del potere»), mentre per altri è semmai il prodotto di un’evoluzione (l’«andare al governo»). Un’evoluzione, per i protagonisti chiamati in causa, che tuttavia non consisterebbe nell’abbandono della mitologia fascista a favore dei regimi costituzionalistici, bensì di una traiettoria compiuta dalla marginalità neofascista ad un terreno dove un po’ tutte le identità, quindi non solo quelle di chi andrà al governo, sono sottoposte alla pressione del mutamento. Quindi, aperte a prospettive per buona parte inedite. Al momento, peraltro, i vincitori sono molto deboli, essendo stati premiati dal reiterarsi di un voto che era alla ricerca del «nuovo» (senza peraltro troppa fiducia in esso), così come avviene da circa trent’anni a questa parte, ossia dai tempi del referendum di Mario Segni sulla preferenza unica (era il giugno del 1991, di acqua ne è trascorsa sotto i ponti). Entro il prossimo anno si capirà se ce la faranno per davvero o saranno invece annientati. Se dovessero farcela, allora cercheranno di garantirsi una soglia di potere stabile e possibilmente reiterabile: la loro non sarà la vittoria alle elezioni, e la formazione di un governo per una legislatura o giù di lì, ma parte di un percorso che cercherà di traghettare l’Italia verso il blocco delle “democrature” dell’Est. Una cosa, quest’ultima, per nulla facile, al momento francamente improbabile, ma non (più) del tutto impossibile. A tale riguardo, è plausibile che Giorgia Meloni si impegni soprattutto su tre fronti, quelli sui quali potrà dare “il meglio di sé”, dinanzi ad un’Europa che potrebbe isolare l’Italia con un cordone di protezione (il rischio di un’infezione sovranista nel resto del Continente) e ad un’economia che il politico non può più governare (essendo tra le maggiori ragioni del disagio collettivo). Il primo di essi è un Kulturkampf contro i diritti civili, parlando di «moralità pubblica» da ripristinare sotto l’egida dei vincitori, alfieri di una “nuova/vecchia” società basata sulle appartenenze e sui valori cosiddetti “naturali”. Il secondo fronte, di cui già si colgono le avvisaglie, potrebbe essere una lotta molto dura ma determinata, se sussisteranno per davvero i numeri parlamentari, per trasformare la Costituzione e dare quindi vita ad Repubblica presidenziale, tuttavia su un modello estremamente autoritario, dove il sistema di pesi e contrappesi, controlli e separazioni – ossia di divisione dei poteri – verrà comunque ridimensionato. Il terzo passaggio, dovendo rispondere ad una diffusa area della nostalgia, è una lotta feroce per la rivalsa degli sconfitti del ’45. Già si apprestano le polemiche – a questo punto senza più pudore alcuno – sul combinato disposto tra Giorno degli Alpini (26 gennaio), Giorno della Memoria (27 gennaio) e Giorno del Ricordo (10 febbraio): si tratta solo di un piccolo sipario su un teatro ben più grande e fatto di molte altre cose ma è bene prepararsi all’occorrenza. Nessuno potrà rivendicare come attenuante un candore dell’animo che è, a questo punto, fuori tempo massimo perché indice non di ingenuità bensì di superficialità. In sostanza, la vittoria della destra-destra porta con sé tante cose, essendo il risultato di tante altre (a partire da uno smottamento verso quegli esiti che avviene, più o meno silenziosamente, dagli anni Ottanta), ma si incontra (“si incontra”, ossia non è da esso causata!), per così dire, con il fallimento prevedibilissimo di un neoliberalismo senza volto né sostanza, quello incarnato dai suoi oppositori, a partire dal maggiore partito di minoranza. Un veloce rimando ai corsi e ricorsi storici: pare di potere dire che il quadro dell’oggi presenti qualche analogia con il 1919, quando a surclassare i liberali del tempo furono socialisti e popolari. Poi arrivarono i fascisti a “risolvere” il tutto, frantumando le opposizioni e mutando gli assetti istituzionali. Allora come oggi era un’Italia in fermento, alla ricerca di rappresentanza, velocemente transitata da un soggetto all’altro. È tuttavia bene fermarsi a questa veloce suggestione, sul piano delle analogie storiche, altrimenti del tutto improbabili se non impossibili. Il nesso (improprio) serve esclusivamente a ribadire che è il quadro sociale e culturale di riferimento ad essere mutato; e quest’ultimo è solo il riscontro di un processo che dura da molto tempo, in una sorta di effetto cumulativo di cui ora ci si sorprende, avendo però in qualche modo subito, collettivamente, e da tempo, lo slittamento di tante cose, situazioni e persone, fino alla soglia del presente. Un Ezio Mauro particolarmente pessimista ha scritto bei giorni scorsi: «con ogni evidenza oggi finisce l’antifascismo come cultura fondatrice, come impegno e testimonianza che hanno informato la Carta e l’ordinamento dello Stato, ricordando la tragedia della dittatura. Neutralizzata nella sua cultura di riferimento, la Costituzione verrà cambiata attraverso il cavallo di Troia del presidenzialismo, strumento perfetto per la predicazione populista che vuole l’identificazione tra il leader e il popolo: e tutto il paesaggio istituzionale, con i suoi equilibri delicati, dovrà adeguarsi alla nuova gerarchia dei poteri. A questo punto comincerà davvero la seconda Repubblica, o la terza se si vuol credere a una fisionomia distinta della stagione maggioritaria del bipolarismo. Ma soprattutto la destra troverà in questo taglio delle vecchie radici lo sfondo eroico per trasformare la conquista del governo non solo in una presa di potere, ma in un’alternativa di sistema. C’era tutto questo, e non solo i seggi nel nuovo Parlamento, dentro la posta in gioco. Chi non è andato a votare “perché tanto è uguale”, o “perché la distinzione tra destra e sinistra non vale più”, si è perso la partita repubblicana più importante degli ultimi trent’anni». Non è facile riuscire a credergli del tutto e tuttavia presenta, in termini drammatizzanti, una prospettiva plausibile. D’altro canto, ciò che viene chiamato con il nome di «centro-sinistra», in Italia è sempre stata un’aggregazione minoritaria, ancorché consistente: con una legge elettorale quale quella vigente, e una disposizione dell’elettorato che già da tempo andava manifestandosi, il rischio di operare un capovolgimento dei precari equilibri preesistenti era largamente prevedibile. Come una profezia che si auto-avvera, a pensarci bene.

Claudio Vercelli

(2 ottobre 2022)