Conoscere Storia e Memoria
attraverso la vita di rav Laras

All’interno della Rete delle scuole piemontesi per la didattica della Shoah tutto era partito con l’idea un po’ visionaria ma straordinariamente suggestiva di una marcia di studenti di tutte le età, dalla scuola primaria alle superiori, attraverso il percorso che il piccolo Giuseppe fece precipitosamente per mettersi in salvo dai fascisti che lo avevano arrestato a Torino il 2 ottobre 1944 insieme alla mamma e alla nonna. L’iniziativa possiede un profondo significato formativo perché quei fatti racchiudono da soli vari elementi storici su cui spingere i ragazzi a riflettere: la delazione della portinaia che denuncia la signora Della Rocca per le 5000 lire di taglia, la vita reclusa di sua figlia e suo nipote che in casa sua si nascondono alla cattura dei fascisti a caccia di ebrei, la facile corruzione degli stessi fascisti che – fatta irruzione per arrestare l’intera famiglia – per 20.000 lire accettano di liberare il piccolo Giuseppe al momento opportuno, la loro totale falsità quando invece lo trattengono con forza, la fuga a perdifiato quale unica via di scampo per il bambino e in genere quale condizione esistenziale degli ebrei braccati dal nazifascismo, la scomparsa improvvisa e perenne delle persone care inghiottite dal nulla della deportazione, il trauma profondo e mai del tutto superato prodotto da questa lacerazione. Ripercorrere i passi spaventati e angosciati di Giuseppe verso la salvezza può significare per i giovani prendere coscienza autonomamente di queste realtà e del mondo stravolto che le ha prodotte, riviverle parzialmente su di sé, auto-educarsi alla conoscenza storica e alla immedesimazione nell’altro. Ecco perché la realizzazione del progetto assume per la Rete un significato così rilevante. Sinora la non facile gestione della questione sicurezza ha impedito lo svolgimento di una manifestazione che avrebbe messo in movimento per le vie di Torino circa mille studenti. Ma la convinzione degli insegnanti coinvolti, guidati dalla Dirigente Scolastica del Liceo Berti capofila della Rete, e la collaborazione dell’amministrazione comunale riusciranno certo nei prossimi mesi a raggiungere l’obiettivo.
Intanto ieri, a settantotto anni e un giorno da quei fatti, due eventi hanno reso possibile una riflessione costruttiva sul loro poliedrico significato. Al mattino il Liceo Berti ha ospitato un incontro, già descritto sul notiziario di ieri, caratterizzato da due momenti centrali: una folgorante restituzione della fuga di Giuseppe, narrata e realizzata in movimento da alcuni alunni della Scuola Primaria Domenico Luciano detto Undici di Givoletto con quella straordinaria immediatezza che solo i bambini possiedono e sanno trasmettere; una vivacissima ricostruzione del carattere e della figura di Rav Laras, a cura di Vittorio Robiati Bendaud, per molti anni suo stretto collaboratore. Ad aggiungere atmosfera e suggestione erano alcuni canti della tradizione ebraica eseguiti dal coro e dal complesso musicale del Liceo Berti.
Il pomeriggio, presso il Polo del ‘900, il tema era: “Per conoscere la Shoah attraverso la storia di Giuseppe Laras e per approfondire la conoscenza di Rav Laras. Vita e memoria dopo la Shoah”. Dentro un contenitore così vasto, tre densi momenti di riflessione erano dedicati ad aspetti differenti: la condizione dell’infanzia durante la persecuzione e la Shoah, la data art di “Una notte lunga sedici mesi”, Rav Laras e il Cardinal Martini di fronte al dialogo interreligioso. Bruno Maida ha delineato gli aspetti più difficili dell’esistenza di bambini e ragazzi in quel periodo buio: la chiusura rispetto al mondo degli altri, l’esclusione dai contatti umani e la discriminazione nei confronti dei coetanei “ariani”; il realizzarsi di questa separazione attraverso fasi comunque diverse della formazione; la reazione spesso da protagonisti, fatta di iniziativa allora (il piccolo Giuseppe che dà uno strattone al gendarme che lo trattiene e scappa per salvarsi, appunto) e di memoria precisa di fatti e sentimenti durante la crescita successiva; e infine la scelta decisiva dopo il 1° dicembre 1943, quando con l’Ordinanza di Polizia n.5 la neonata Repubblica Sociale Italiana dichiarava gli ebrei nemici passibili di arresto e le famiglie dovettero dunque decidere se e dove fuggire, per quanto tempo, cosa portare con sé, di chi fidarsi. E i piccoli, come si spiegavano la fuga? Quando poi la ricerca di un possibile percorso di salvezza richiedeva ai nuclei familiari la separazione dai figli, come potevano i bambini comprendere quella terribile e assurda divisione dai genitori? E come spiegarsi l’adozione di un nome falso e il segreto su quello autentico? Nel complesso, questa fase acuta della persecuzione antisemita (la persecuzione delle vite) che l’infanzia visse come “la seconda ferita” dopo quella del 1938 provocò spesso nei bambini e negli adolescenti un senso di abbandono destinato a perdurare nel corso della loro esistenza. E accanto a questo, la progressiva perdita dell’idea dell’onnipotenza genitoriale. L’aspetto più sorprendente e amaro tra gli effetti di lunga durata della condizione infantile di quegli anni è la reticenza con cui molti bambini di allora si decisero da adulti a portare testimonianza: come “perseguitati di secondo piano” rispetto al numero infinito dei bambini morti nella Shoah, tacquero sino agli anni Novanta del secolo scorso. Molti aspetti del carattere della persecuzione infantile cominciarono così ad essere chiari solo allora.
La realizzazione di “data art” realizzata presso la galleria Wild Mazzini da Davide Fuschi e Michela Lazzaroni ci ha portato a dare uno sguardo diverso, corale alla deportazione nazifascista da Torino. I dati che ruotano intorno alle ormai numerose pietre d’inciampo del territorio urbano (nome, appartenenza, motivo della deportazione, sesso, condizione, data e luogo dell’arresto – della deportazione) si intrecciano e si sovrappongono a formare quasi un interessante disegno o tracciato della memoria dedicata ai deportati nella realtà torinese. Un omaggio artistico intriso necessariamente di conoscenza storica, capace di trasformarsi in un tributo collettivo alle varie vittime (politiche, “razziali”, sociali) di un regime e di un’epoca.
Infine, a chiudere il convegno pomeridiano, il ricco e complesso intervento di Vittorio Robiati Bendaud, che – quasi in risposta a una visione forse un po’ “generalista” di Maida intorno alle cause dell’antisemitismo – è partito da una premessa volta a cogliere le specifiche radici cristiane e nel contempo islamiche (“intersezionalità” è il termine da lui usato) dell’antiebraismo maturato nei secoli scorsi, base solida del genocidio novecentesco. Su questo fondamento tragico è nata e cresciuta nel secondo dopoguerra la volontà del dialogo ebraico-cristiano, più vaga subito dopo il Concilio Vaticano II, più accentuata e concreta in seguito alla visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma. L’indirizzo comune di due grandi personalità quali il Cardinale Carlo Maria Martini e Rav Giuseppe Laras verso il terreno della parola e dell’incontro ha favorito la conoscenza, poi l’autentica sincera amicizia e consuetudine tra due grandi personalità, che con la loro sapienza, la loro saggezza, la loro forza morale, la loro fiducia nell’uomo a prescindere dalle appartenenze hanno saputo portare un tangibile contributo all’incontro e all’approfondimento comune.

David Sorani