L’intervento del Rav Goldschmidt
“Da Mosca a Gerusalemme,
il mio Kippur in esilio”

Sentirsi in esilio nella patria millenaria del popolo ebraico. È il paradosso che vive rav Pinchas Goldschmidt, l’ex rabbino capo di Mosca fuggito dalla Russia in Israele. “La frizzante aria autunnale di Mosca; la sinagoga illuminata che ho chiamato casa per 30 anni; il mio cappello bianco e la tunica che si indossa nei giorni di massima solennità, piegati, in un appartamento chiuso a chiave: sembra tutto un sogno” racconta il rav, che è anche il presidente della Conferenza europea dei rabbini, descrivendo questa sua condizione mai sperimentata sulle colonne del New York Times. Una riflessione pubblicata nell’imminenza dello Yom Kippur, il giorno più importante del calendario ebraico. Il rav, nell’elaborare la speciale atmosfera dell’attesa, si lascia andare alla nostalgia: “Mi preparavo per questo periodo per settimane. Parte del lavoro era tecnico: assicurare cantori e suonatori di shofar per le sinagoghe di tutta la Russia o guidare i malati sull’opportunità o meno di digiunare nel giorno santo. Alcuni dei preparativi erano più elevati: preparavo i pensieri per la mia orazione camminando ogni giorno per le preghiere penitenziali mattutine, oltre i vivaci caffè di via Pokrovka, giù per la collina in via Arkhipova, su per le scale fino alla sinagoga giallo pallido, con la sua cupola…”.
A cambiare il corso della storia l’aggressione militare all’Ucraina. “Molto presto – la testimonianza del rav – ho ricevuto segnalazioni di leader di comunità religiose, sacerdoti, imam, rabbini, che erano stati spinti a esprimere il loro sostegno all’esercito. Quindi un rappresentante del governo ci ha informati che si aspettava un nostro appoggio alla guerra. È stato allora che io e mia moglie abbiamo deciso di lasciare il Paese”.
Il rav, che è nato a Zurigo e si è formato in Israele, è arrivato a Mosca nel 1989. In piena perestroika. Un’esperienza emotivamente intensa. “Non dimenticherò mai il mio primo Yom Kippur. Un compito arduo: delle migliaia di ebrei post-sovietici che venivano in sinagoga la maggior parte non conosceva l’ebraico e quindi non poteva né seguire il rito né pregare”, spiega il rav. Di conseguenza, c’era chi si affacciava anche solo “per meditare in silenzio, indipendentemente dalla preghiera comune, e quindi avviare una conversazione con un vicino o semplicemente leggere un libro o un giornale”. Nel suo Yom Kippur “in esilio” rav Goldschmidt si recherà in alcune sinagoghe di Gerusalemme, incontrando con tutta probabilità anche alcune delle molte migliaia di ebrei russi che hanno fatto la sua stessa scelta. Da quando è arrivato in Israele, d’altronde, si è spesso confrontato con loro. Ricordando il passato, “ma guardando anche al futuro”. Un futuro che non potrà prescindere da un’azione forte di consapevolezza: “Quando quest’anno suoneremo lo shofar – il suo messaggio – ricordiamoci di come un mondo pacifico debba fare affidamento sui fondamenti della libertà e della vita. Non solo per gli individui, ma anche tra le nazioni. Per molto tempo abbiamo pensato che tutto ciò fosse un dato di fatto nella società occidentale, fino a quando non lo è stato più”. Quando suoneremo lo shofar, esorta ancora il rav, “ricordiamoci che è compito della fede contrastare il male e lottare per i diritti umani fondamentali”.