Le origini d’Israele

Nel recente saggio La Grande Vienna ebraica – tratto da I destini e le avventure dell’intellettuale ebreo (1996) – Riccardo Calimani, trattando Sigmund Freud, racconta che Chaim Weizmann aveva detto al biografo del medico viennese, Ernest A. Jones, “che la psicoanalisi aveva suscitato grande interesse in Palestina e che dalla Galizia arrivavano emigranti senza vestiti, ma con Il Capitale e L’interpretazione dei sogni sotto il braccio”.
Che i halutzim e i fondatori dei primi kibbutzim portassero con sé dall’Europa piccole biblioteche portatili e in particolare i testi fondamentali delle idee rivoluzionarie allora in voga è ricordato spesso sia da biografi della storia di Israele che dagli ultimi romanzieri. Il lato utopico del sionismo, quello che sognava di costruire un nuovo modello di società “faro per il resto del mondo” è troppo spesso dimenticato, e al contrario, il movimento viene confuso, specie dai suoi detrattori, come un qualsiasi progetto di tipo coloniale. Un colonialismo che dovrebbe essere di per sé considerato insolito da chi lo ritiene tale visto che è privo di un paese colonizzatore. Pochi capitoli prima Calimani ricorda che nel 1927 Joseph Roth affermasse la realtà che “il sionismo moderno abbia avuto origine in Austria, a Vienna. Lo ha fondato un giornalista austriaco. Nessun altro avrebbe potuto fondarlo”. Theodor Herzl, scrive Calimani, più che un politico sognava di diventare un letterato di valore, di essere stimato dal resto dalla società e dai posteri come un buon scrittore. Inutile dire che non è andata propriamente così, ma il fatto che Israele abbia le sue radici nella penna di uno scrittore della Finis Austriae, e che i suoi primi cittadini provenissero da masse diseredate in fuga dai ghetti orientali d’Europa, e poi in seguito da esuli del Nordafrica e del Medio Oriente dovrebbe bastare per riconsiderare gran parte delle narrazioni correnti, e forse rivelarci qualcosa anche a proposito del suo futuro.

Francesco Moises Bassano