L’opinione
Raccontare il nove ottobre,
una sfida necessaria

Roma, via Catalana, dovrebbe suscitare la stessa emozione, e indignazione, lo stesso senso di ferita di Piazza Fontana a Milano o di Piazzale della Loggia a Brescia o della sala di attesa di seconda classe della stazione ferroviaria di Bologna. Tutti luoghi che hanno significato vite umane distrutte, lutti, ferite nel corpo e nell’anima delle persone che lì c’erano. Ma non è così.
Penso che sia per questo che è stato pensato, prodotto e poi acquistato dalla Rai «Era un giorno di festa», documentario ideato e prodotto dall’Associazione 9 ottobre 1982 con il patrocinio della Comunità ebraica di Roma che, con l’aiuto e il supporto di testimonianze inedite e molte interviste, cerca di ricostruire la memoria dell’attentato alla sinagoga di Roma.
L’evento, nella sua tragica dimensione, ha lacerato l’animo di una famiglia che più di altre è stata colpita nel più caro degli affetti. Una traccia indelebile.
Quanto accaduto rappresenta una ferita profonda, indelebile, anche nell’animo e nei sentimenti di una Comunità: sul ricordo di tutti gli ebrei – romani e italiani – pesa la troppo lunga attesa di una giustizia che, oggi, a quaranta anni di distanza, ancora non è stata fatta.
Anche per questo raccontare la memoria di quell’attentato significa non solo dare voce e spazio al proprio malessere, ma cercare di bucare il muro di gomma che sta intorno, e dunque provare a riempire il «vuoto di memoria» dominante. Un vuoto che non è solo dato da ciò che non si sa, ma da un buio esistente nell’opinione pubblica. Per questo se il proposito era meritevole e se opportuno è stato dare voce e spazio ai testimoni, poi si trattava di consegnare a un pubblico lontano un dossier capace di orientarlo, di sensibilizzarlo, comunque di smuoverlo dalla sua posizione di lontananza e di estraneità. E perciò di suscitare un processo di avvicinamento. Da questo punto di vista come prodotto che parla al mondo esterno quel documentario mi sembra che non raggiunga il suo scopo.
Andare in Rai, nel palinsesto di un canale generalista e non dentro un format specifico, obbliga a chiedersi non solo cosa vuoi raccontare o che cosa vuoi mettere al centro del tuo prodotto audio-video, ma a chi ti stai rivolgendo, cosa vuoi o cosa ti proponi che dopo quel pubblico faccia, si chieda, pensi.
E perciò, oltre la comunicazione del dolore, della rabbia, o del rancore, che giudico legittimi, il tuo obiettivo deve essere aiutare lo spettatore dall’altra parte del video a farsi un’idea, o ad avere voglia di farsi un’idea. Ma anche: che cosa riceve in termini di informazioni; poi che cosa trattiene con sé di ciò che ha visto; quanto interesse suscita in lui/lei quell’episodio raccontato; che cosa pensa che voglia saperne di più; quanto della versione precedente – ammesso che ne avesse una – risulta messo in questione.
A cominciare dal luogo, Via Catalana, appunto. Qualcuno – a Monza, o a Gratosoglio, o a Cavarzere o a Vibo Valentia – sa dov’è? In base a quel documentario si è fatto un’idea della scena che precede l’attentato, delle dinamiche che lo mettono in essere? Dell’insieme di depistaggi, informazioni taciute, dell’isolamento, del disinteresse che in proporzioni variabili stavano a monte di quell’episodio e poi dei ritardi e dei non detti che hanno accompagnato il tempo dopo?
Un documentario non è da solo l’unico strumento che consentirà di soddisfare tutte queste domande o di riempire tutti i vuoti, anche se aiuta molto. Ma le voci di chi ha subito l’attentato e che portano sul corpo, e nella propria interiorità, nonché nella propria memoria i segni indelebili, da sole non saranno in grado di dare risposte a un bisogno vero che c’è. L’esito, ma spero di sbagliarmi, sarà di nuovo il silenzio, o più semplicemente l’indifferenza, qualcosa che fa dire a molti: “fatti loro”.
Non credo fosse l’obiettivo di partenza di chi ha prodotto, montato e lavorato per realizzare quel documentario.

David Bidussa