Le maschere del pregiudizio

Si è fatto un grande parlare, in questi ultimi anni, di un abbandono progressivo dell’Europa da parte degli ebrei. I ripetuti atti di antisemitismo, un clima di intolleranza crescente, le manifestazioni di diffusa aggressività ma anche le crescenti difficoltà economiche, sarebbero alla base di un congedo che se in alcuni paesi è senz’altro tangibile in altri ha dimensioni molto più contenute, ma non per questo del tutto trascurabili. Il primo caso sembra valere soprattutto per la Francia, che si è candidata già da tempo a rimanere l’epicentro del disagio (discorso a sé ciò che sta avvenendo in Russia e Ucraina). Ancora una volta poiché, come ben sappiamo, non è certo fatto nuovo che proprio nella patria della rivoluzione repubblicana e laica – laddove fu formulato compiutamente il rapporto democratico tra minoranze e maggioranza, quindi al di fuori degli schemi di antica servitù – si manifesti questo angosciante fantasma. Una parte del microcosmo delle organizzazioni antirazziste si rivela sempre più incapace di affrontare gli ordini di problemi che le trasformazioni delle nostre società stanno causando nel corpo della società nazionale, a partire, solo per citarne due, dal mutamento del mercato del lavoro e dalla presenza di comunità di immigrati caratterizzate da una forte specificità culturale. Questo problema, peraltro, è in sé un indice di processi di ben più ampia portata, che investono il modo di essere cittadini e fare cittadinanza, quindi i difficili – se non tortuosi – percorsi di integrazione e lo stesso futuro della coesione sociale. A Parigi, in Francia come in tutta l’Europa. Ovverosia, rischia di essere la spia di un processo sociale e culturale ben più diffuso, dove in gioco non è solo quel che resta dei non facili rapporti tra l’ebraismo francese e una parte delle comunità musulmane ma, più in generale, la questione spinosissima della praticabilità di politiche di reciprocità e integrazione. Ciò, ovviamente, in tutto il Continente. Secondo un criterio che è quello dello stato di diritto e non invece delle prerogative delle tribù di ritorno, in omaggio ad un approccio etnico ai legami sociali, quest’ultimo particolarmente caro ai differenzialisti, ai sovranisti, agli identitaristi che affollano sempre di più, un po’ ovunque, il proscenio politico europeo. Sull’antirazzismo non vi è più una convergenza di opinioni e, quindi, di azioni, semmai essendo divenuto a sua volta un territorio di divisioni e di contrapposizioni. In Francia, la spaccatura tra la società ebraica e una parte del mondo musulmano è quindi evidente. Non è una contrapposizione totale e, ancora meno, un conflitto di natura religiosa, chiamando piuttosto in causa, come già si diceva, la cittadinanza repubblicana, il senso di appartenenza ad un consesso sociale fondato su valori comuni poiché condivisi. Riflette, nelle sue specificità, il più generale conflitto tra autoctonia e immigrazione, esasperando linee di differenziazione che si stanno trasformando in fenditure a tratti incolmabili. A sancire, materialmente e simbolicamente, tale stato di cose era già intervenuta la tragica vicenda del rapimento di Ilan Halimi, il giovane francese di origini marocchine, morto poi a causa delle violenze e delle torture praticategli nel corso dei ventiquattro giorni di brutale prigionia. Già nel 2002 lo storico e sociologo Georges Bensoussan, usando lo pseudonimo di Emmanuel Brenner, aveva coordinato e diretto la redazione di un testo, composto perlopiù da testimonianze e verifiche sul campo, nelle quali erano resocontate le voci di molti insegnanti, dedicato a «Les territoires perdus de la République: antisémitisme, racisme et sexisme en milieu scolaire». A conti fatti, ad una ventina d’anni dalla sua uscita, il volume costituisce ancora una pietra miliare nella discussione sull’Islam dell’immigrazione in terra francese. Il ritratto che emerge di una parte della gioventù maghrebina, a quel punto già di seconda o terza generazione, è spesso ben poco confortante. Al riproporsi dei temi antisemitici, rielaborati all’interno di un contesto socioculturale che è quello delle periferie dei grandi agglomerati metropolitani, dove la marginalità economica si incontra con il disincanto e un aggressivo cinismo, si accompagnano sessismo e misoginia, «francofobia» (così come ha avuto a dire lo scrittore Alain Finkielkraut) e un’aggressività alla ricerca di una partitura politica da recitare. Al di là dei singoli casi, ciò che più in generale rende comunque irrequieti, se non a volte dichiaratamente inquieti, è la percezione di un fenomeno, quello di una frantumazione della cittadinanza repubblicana e democratica, nel nome di appartenenze di gruppo e “comunitarie” capaci di darsi brutali regole proprie, in opposizione a quelle comuni, che potrebbe essere in via di maturazione un po’ ovunque. Con intensità diverse ma un similare denominatore, ossia il declino della capacità delle nostre società di integrare persone con origini diverse ma destinate a condividere un’unica lealtà, quella verso una società inclusiva. Di certo, indipendentemente da come le cose dovessero andare concretamente nei tempi a venire, anche nella migliore delle ipotesi il problema della coesione sociale è oramai già all’ordine del giorno nei paesi dell’Unione europea. Diverrebbe un disastro, se dovesse accentuarsi al punto tale da risultare ingestibile. Per gli ebrei ma anche per l’Europa come tale. Poiché la decadenza – in questo caso la fuga – delle minoranze, da sempre, nelle nostre società, precorre il declino morale, civile e politico delle maggioranze. Nel novero dei problemi che porterebbero a un tale esito entrano in conto molte cose. Da subito va detto che incide una sorta di saldatura, ovvero di combinato disposto, che fa relazionare negativamente fattori diversi, tra di loro anche molto eterogenei. Bisogna quindi partire dai mutamenti degli assetti geopolitici nell’area del Mediterraneo, passando per la crisi delle sovranità nazionali (che sprigiona energie di ogni genere, tra le quali anche tensioni che si trasformano in risentimenti, alla ricerca di un obiettivo contro il quale scagliarsi), attraversando le crescenti difficoltà in cui si trova il ceto medio, che in questi anni ha visto messo in discussione il proprio ruolo sociale ed economico per poi arrivare, infine, alla diffusione di un habitat virtuale, il web, che mescola notizie, giudizi e pregiudizi come un frullatore. Tra questi ultimi, e ci torneremo da subito nelle prossime righe, campeggia il negazionismo. Ognuno di questi elementi è di per sé autonomo e non ingenera, aprioristicamente, antisemitismo. Tuttavia, la costellazione che tra di essi si crea, quando si sovrappongono e interagiscono, può essere tale da incentivare l’avversione di natura antisemitica, creando un habitat che gli è favorevole. Peraltro, il razzismo produce di per sé dinamiche totalizzanti, che rispondono all’angoscia da incertezza, soddisfacendo il bisogno di trovare un lenitivo alle paure del momento. Si tratta, infatti, di letture integrate della realtà e delle relazione sociali e politiche, attraverso il rimando alla proliferazione di “nemici interni” e di nemici etnici sul piano internazionale. È come se si facesse una sorta di fermo immagine, in una situazione altrimenti in movimento, di cui non si capisce il senso e della quale si temono quindi gli effetti. L’ambizione del razzista, infatti, è di dare da subito un volto ed un nome a ciò che è percepito da molti come una minaccia tanto oppressiva quanto di difficile identificabilità. Il meccanismo che opera nella razzizzazione è quasi sempre il medesimo: si identifica l’alterità (reale o presunta) e la si traduce da subito in minaccia (all’ordine costituito), mentre si trasforma la differenza (come valore civile e tratto caratteristico della varietà umana, ovvero dell’evoluzione delle nostre società) in diffidenza, quest’ultima una moneta spicciola nelle relazioni sociali, dove entrano in gioco titubanze, invidie se non paranoie attraverso le quali si costruisce, e si rinforza, una retorica del «pericolo incombente». Affinché questo transito si consumi occorre che dalla generalizzazione di alcuni caratteri negativi (ossia l’attribuzione di essi ad interi gruppi umani) si transiti prima alla connotazione (ovvero l’interpretazione e il conferimento di uno specifico e immodificabile valore ad essi, sempre di segno negativo nel caso dei gruppi ostracizzati), poi alla loro naturalizzazione (che trasforma tali caratteri in caratteristiche stabili e destoricizzate, trasmesse per via ereditaria) e, infine, alla loro decontestualizzazione (la separazione del tratto cosiddetto “razziale” da quello sociale: l’individuo non è ciò che fa o chi dice di essere, così come le relazioni che intrattiene, ma quanto gli viene attribuito, indipendentemente dalla sua concreta condotta). In questo meccanismo, che storicamente sa trasformarsi in una macchina infernale, la costante intensità (ripetizione ossessiva, tonalità aggressiva, diffusione virale, non verificabilità immediata dei contenuti) dei messaggi sul web produce l’effetto – paradossale e perverso – di rendere le affermazioni stereotipate, a fondamento razzista, socialmente accettabili. Anche da ciò deriva il fatto che oggi l’antisemitismo tende a svilupparsi e a trasmettersi sempre più spesso anche attraverso l’habitat virtuale, dove coesistono, nello stesso tempo e nel medesimo luogo di relazioni a distanza, affermazioni e contro-affermazioni, dichiarazioni rispondenti a reali riscontri e stravaganze di ogni genere e tipo, le une e le altre poste sul medesimo piano e fruite senza alcun filtro razionale, ossia senza una verifica. Non a caso si parla già da diverso tempo di «post-verità», un termine con il quale si indica non solo la deliberata menzogna ma soprattutto la propensione, presente in una parte del pubblico, a costruirsi un insieme di rappresentazioni e immagini che alimentano una visione del mondo, e delle relazioni sociali, sulla base non di riscontri reali ma un immaginario a sé stante. Il negazionismo – che è un prisma del pregiudizio antiebraico, poiché tiene insieme il complottismo (che sta dietro le letture deliranti e paranoiche dei grandi problemi storici e sociali) con l’antica avversione contro gli ebrei e l’antisionismo (quest’ultimo riformulato come forma di opposizione strenua all’egemonia ebraica nel mondo) – si costituisce come punto di incontro tra discorsi politici altrimenti alternativi, antinomici, ossia quelli di una destra populista e sovranista e ciò che è proposto da una parte di quella sinistra estrema in grave crisi di identità e di legittimazione. Non ci riferiamo al negazionismo ideologico – quello che vanta invece solidi antesignani e propugnatori nel neonazismo – e neanche a quello cosiddetto «tecnico» – che si esercita in una lettura ribaltata delle fonti -, bensì al chiacchiericcio universale che attraversa internet e che poi si struttura in un paradigma del pregiudizio: tutto inventato, tutto falso, tutto prodotto di una mistificazione che è, alla resa dei conti, cospirazione ebraica. A tale proposito il negazionismo è una forma moderna di teoria del complotto, che focalizza le angosce contemporanee su un agente ritenuto produttore di malessere e sottoposto a perenne stato d’accusa. Dal popolo d’Israele allo Stato d’Israele, il mutamento dell’obiettivo non muta la natura del rifiuto, che assume una valenza di legittimazione a posteriori del genocidio trascorso e, più in generale, dell’antisemitismo presente. Dal momento in cui, con il secondo dopoguerra, il discorso antisemita tradizionale si è fatto politicamente insostenibile si è venuto sviluppando un discorso pubblico che argomenta l’inaccettabilità del sionismo e, di riflesso, dello Stato d’Israele, intesi l’uno e l’altro come creazioni artificiali, ossia prodotto della cattiva coscienza dell’Occidente. La progressiva saldatura simbolica, consumatasi a cavallo tra gli anni Cinquanta e Settanta, tra sionismo, colonialismo e razzismo, ha quindi permesso di stabilire una sorta di filiazione nobile al suo rigetto. Così l’antisionismo si è accasato in segmenti di una sinistra terzomondista alla ricerca di un oggetto di “lotta” al quale ancorarsi, generandosi come categoria concettuale a sé, del pari al suo essere campo di significati sui quali alcune parti della destra e ulteriori settori della sinistra possono trovare un terreno di convergenza quanto meno occasionale. In buona sostanza, una sorta di comune sentire fondato sulla condivisione di un identico oggetto di avversione: l’idea dell’ebreo come generatore di “disordine” (quindi alla radice dei cambiamenti sistemici introdotti dai processi di globalizzazione). In questo quadro, diventa agevole per i negazionisti non solo l’affermare che lo sterminio degli ebrei non abbia mai avuto luogo, potendo semmai rilanciare le accuse nel merito del fatto che tale “menzogna” avrebbe una funzione politica, ovvero legittimare il sionismo e, quindi, ciò che esso comporta in termini di gioco egemonico per parte ebraica. In un ribaltamento perfetto dei ruoli, se il sionismo è una moderna forma di razzismo, le “false vittime” di un “genocidio inesistente” sono, di riflesso, i veri persecutori nel presente. Il perno di questo ragionamento si basa sul riscontro che se la Shoah non è alla radice dello Stato d’Israele (benché poi molti negazionisti affermino altrimenti) essa tuttavia gli conferisce un “ritorno” di legittimità morale, una specie di surplus etico. A questo punto, per delegittimare Israele, la negazione diventa strategica. È quindi in questo passaggio che due orizzonti ideologici alternativi trovano una comunione. Come aveva avuto modo di riscontrare già alcuni anni fa lo stesso Georges Bensoussan: «in primo luogo, [si dà] un discorso antisemita e negazionista centrato sul vecchio tema del “complotto ebraico mondiale” e che va scoprendo la portata dell’antisionismo. In secondo luogo, un discorso antisionista e antirazzista centrato sul “complotto sionista mondiale” e che va scoprendo il negazionismo [come suo corredo necessario] e, in certi casi, l’antigiudaismo. Si assiste a un alternarsi di motivi: il punto di arrivo degli uni è il punto di partenza degli altri, ma nelle due figure l’ “ebreo-sionista” finisce per incarnare la figura assoluta del male». Lo Stato d’Israele assurge a piattaforma materiale, ideologica e simbolica del nuovo capitolo di un libro senza fine, quello del dominio ebraico. A destra l’accento batte sulla natura “etnica” dell’ebraismo, al quale, in quanto stirpe, sarebbe consustanziale l’intendimento di soggiogare il pianeta; a sinistra, invece, ci si sofferma sull’aspetto razzista, colonialista e sulla falsità dell’Olocausto in quanto rendita morale, indebitamente auto-attribuitasi dagli ebrei. Questo perché negare la dimensione, se non addirittura la realtà di questa storia, diventa la tappa obbligata nella motivazione ideologica del rifiuto d’Israele. Dalla fine della Seconda guerra mondiale la comunità internazionale ha ricostruito le fondamenta delle sue relazioni basandosi sul rigetto del nazismo, in quanto fenomeno politico non solo moralmente abietto ma socialmente inaccettabile. Tuttavia, come ogni forma di consenso generalizzato, e quindi omogeneizzante, esso richiama e implica molteplici coni d’ombra. Per una certa sinistra estrema, pregiudicare questo consenso offre la possibilità di dichiarare la denuncia della natura dell’oppressione presente, celata sotto il falso unanimismo dell’antifascismo democratico, che serve come copertura ideologica al prosieguo delle pratiche di sfruttamento. Si tratta di un discorso che alcune componenti della sinistra bordighiana, sia pure molto ai margini, aveva già sviluppato a loro tempo e che continua ad allignare in certi ambienti, trovando nuovo fiato nel web. In una sorta di eco infinita, non più di nicchia, che si riproduce da sé. Da ciò, quindi, l’attacco a quanto può sostenere la legittimità di Israele. Smascherare la «falsità dell’Olocausto» vuol dire denunciare definitivamente l’impostura dello Stato degli ebrei che, a sua volta, sarebbe l’abusivo destinatario di una solidarietà tanto più pericolosa perché rivolta ad un soggetto che è protagonista dell’oppressione attuale. Dall’analisi del suo operato si possono meglio capire forma e natura del dominio capitalistico, secondo gli assertori di questo teorema. Cosa c’entra, allora, quanto ci siamo detti fino a questo momento rispetto al discorso che abbiamo fatto in apertura, quello che rimandava al senso di disagio che attraversa l’ebraismo europeo? Facile dirlo, se si analizza la sequenza che lega antisemitismo ad antisionismo e, quest’ultimo, a negazionismo. Il terzo legittima il secondo e il secondo reintroduce il primo. La questione o viene intesa come problema che interpella immediatamente le democrazie occidentali nel loro insieme, e quindi la loro coesione sociale, che potrebbe altrimenti essere messa definitivamente in discussione, oppure rischia di essere fraintesa come un problema personale dei pochi. Nel qual caso, però, ad essere sconfitti, come già si diceva, non sarebbero esclusivamente questi ultimi ma l’intera società europea. La Francia, per l’appunto, rimane il proscenio più inquietante di questi fermenti. Dalle risposte che ad essi deriveranno, non solo per parte della politica, si misurerà la praticabilità degli spazi democratici negli anni a venire. Per le minoranze così come per l’intero corpo sociale.

Claudio Vercelli